Dal Covid al caldo, stesso copione: l'isteria emergenzialista
Jul 27, 2023Il bombardamento ideologico, apocalittico, colpevolizzante imperniato sull'idea para-religiosa millenarista della colpa umana onnipresente per il “riscaldamento globale”, o “crisi climatica”, impazza senza freni nei media e nella politica italiana, generando invocazioni di interventi di emergenza che sempre più manifestano analogie retoriche e terminologiche con l'atmosfera di terrore e con le restrizioni costruiti negli anni scorsi come presunto contrasto alla pandemia di Covid-19.
Quel regime emergenziale ha creato - come era facile prevedere - un precedente pericolosissimo per la cultura delle libertà e dei limiti del potere, innescando una coazione a ripetere che spinge la classe politica, le istituzioni, i media ad affrontare altri temi con lo stesso metodo: spargere terrore nella società dipingendo minacce imminenti, demonizzare ogni dialettica o dissenso come “negazionismo”, instaurare una selva di obblighi, divieti, controlli fondati su un'autorità dichiarata a priori indiscutibile.
Si trattava, in verità, di una tendenza già serpeggiante soprattutto in società anziane, ossessionate dalla sicurezza e dalla richiesta di protezione come quelle europee. Ma senza dubbio la crisi sanitaria del 2020-2022 ha segnato in tal senso una svolta decisiva, e l'Italia è stata uno dei paesi in cui le restrizioni imposte sono state più pesanti, e hanno lasciato gli strascichi più evidenti.
Nella particolare conformazione dell'isteria “sanitocratica” del nostro paese, tuttavia, ha sempre avuto un ruolo rilevante anche un fattore specifico, tipico della nostra storia sociale e politica: quello che potremmo chiamare “effetto Monsù Travet” o “effetto Fantozzi”. L'Italia è il paese occidentale che presenta la maggiore incidenza di dipendenti statali e pubblici rispetto al totale della popolazione attiva, e più in generale quello in cui il lavoro dipendente ha un peso quantitativo maggiore rispetto all'impresa e alle libere professioni. Questo ha fatto sì che misure decisamente inconciliabili con ordinamenti occidentali di libertà come i lockdown, i coprifuoco, le chiusure, le “zone a colori” varate dal governo Conte II e perpetuate dal governo Draghi siano state accolte, a suo tempo, non soltanto senza grandi resistenze e con complessiva accettazione, ma addirittura con favore da una ampia fascia dell'opinione pubblica, che chiedeva anzi il loro mantenimento e prolungamento.
Ciò soprattutto grazie al cosiddetto “smart working” (o per esattezza lavoro da remoto, molto blando rispetto a standard di produttività e controlli) garantito a tutti gli impiegati, addetti a servizi, docenti, e per la cassa integrazione concessa largamente a tutti gli altri lavoratori dipendenti. In sintesi questi provvedimenti facevano sì che l'esercito della mano d'opera subordinata italiana fosse ben felice di restare a casa il più possibile, continuando a percepire lo stipendio senza lavorare o a fronte di una quantità e qualità di lavoro molto meno impegnativa.
Non stupisce, dunque, che oggi tra le varie filippiche catastrofiste e scomposte invocazioni di provvedimenti draconiani generate dalla continua asserzione che ci troveremmo nell'anno più torrido della storia, o simili, e dall'associazione automatica tra forte caldo estivo e “riscaldamento di origine antropica” sia spuntata, nei giorni scorsi, una proposta tipicamente in linea con la filosofia “fantozziana” di cui sopra: quella, lanciata dal presidente di Confindustri Bonomi, di usare il più possibile lo “smart working” per salvaguardare i lavoratori dagli effetti della calura, e di varare una speciale forma di cassa integrazione motivata proprio dal caldo eccezionale. Proposta, peraltro, subito rilanciata dal segretario della Cgil Landini, e persino dall'Inps, che ha specificato come sia già possibile richiedere la cassa integrazione (Cig) per determinati impieghi se la temperatura è superiore ai 35 gradi, e addirittura la richiesta si possa fondare non solo sulla temperatura registrata ma anche su quella “percepita”.
Ora, sarebbe facile commentare sarcasticamente che gli effetti letali del presunto caldo eccezionale evidentemente hanno già lasciato il segno su molti, al punto da far partorire idee come questa, del tutto sconnesse dalla realtà, e ispirate a un criterio di protezione totale, di “rischio zero” non proprio di una società fondata sulla responsabilità individuale, ma di una sorta di utopico regime paternalista della medicalizzazione totale, regime di cui, peraltro, l'emergenzialismo “covidista” italiano ci ha offerto purtroppo, tra il 2020 e il 2022, ampi assaggi. Sarebbe facile, ma non coglierebbe lo humus culturale e storico dal quale nascono proposte come questa, e il problema di fondo al quale esse rimandano.
Siamo di fronte, infatti, ancora al retaggio storico di una consolidata, sedimentata tradizione corporativista, statalista e assistenzialista, che nel nostro paese colora di sé in maniera consistente e caratteristica anche l'emergenzialismo sanitario o ambientalista. Che si tratti di una presunta pestilenza, o di una presunta imminente fine del mondo per apocalisse climatica causata da scellerati comportamenti umani, in Italia “tutti i salmi finiscono in Gloria”: tra le misure partorite o concepite ad hoc ce ne è sempre qualcuna che mira a consentire ai lavoratori dipendenti di lavorare il meno possibile guadagnando lo stesso, che fa sì che i servizi pubblici funzionino a scartamento ridotto con danni per tutti gli altri, che fa pesare i costi di tali concessioni su tutti gli altri cittadini attraverso il sistema fiscale più oneroso e persecutorio e la pressione fiscale più alta del mondo industrializzato.
Anche i regimi di eccezione in Italia vengono, insomma, inevitabilmente avvolti dall'abbraccio soffocante del burocratismo, dell'inefficienza, del dolce far niente di tanti a spese di chi produce ricchezza e sviluppo.