Dove sono andate tutte quelle cose belle?
Mar 05, 2023Un bambino sta scrivendo una letterina, sforzandosi di usare una bella calligrafia, sulle righe di un foglio strappato dal quaderno della seconda elementare. È una lettera d’amore. La prima della sua vita. La destinataria è sua mamma. Nessuno gli ha dato lo spunto, lo ha invogliato, lo ha sollecitato. L’idea è spuntata da sola, così, per conto proprio, in maniera assolutamente autonoma: si è fatta strada per le vie nascoste del cuore, dapprima in forma confusa e indistinta, poi sempre più chiara e precisa, fino a erompere in piena luce. In quella letterina egli non chiede nulla, non domanda, non lascia intravedere alcun secondo fine; del resto manca molto a qualsiasi festa che possa essere pretesto di regali. Ha semplicemente sentito il bisogno di esprimere la piena del cuore e ringraziare la sua mamma di esistere. Così bella, così giovane, così gentile, così dolce, così sollecita e affettuosa, sempre disponibile. Che ha sempre un sorriso, una parola buona, un tratto di ottimismo; che canticchia con voce melodiosa mentre fa i lavori di casa; che non parla mai dei problemi di lavoro, né della salute del papà che va a trovare ogni giorno in ospedale, ma della cui malattia i due bambini non si sono praticamente accorti. Anzi, torna spesso con un dolcetto o con qualche semplice giocattolino di plastica colorata. Niente di esagerato, cose semplicissime, perché quei bambini sono stati educati ben lontani dal consumismo: ma solo così, per scacciare la malinconia della famiglia forzatamente divisa e per tenere alto il morale, così che i loro pensieri vadano spensierati in luoghi felici.
Quella letterina, l’emozione del bambino mentre la scrive, l’emozione della mamma quando la legge, sono fra le esperienze di vita più belle che possano esservi al mondo: quasi non ci sono parole per descriverle. Ebbene, ecco la domanda che ci sta a cuore, che da sempre ci facciamo: quei momenti felici, quelle ore liete, quei sentimenti dolcissimi e irripetibili, che fine fanno? Dove se ne vanno? Scivolano via nel nulla, e la polvere del tempo li ricopre a poco a poco? Abbiamo scelto come esempio un momento di vita infantile, perché l’infanzia da se stessa avvolge di nubi dorate tutto quello che tocca; e poi la memoria, per quanto riesce a ricordare, le abbellisce ancora di più, caricando il ricordo con le mille e mille fonti della nostalgia. Dei genitori, dei fratelli, dei nonni, della vecchia casa, della città tanto amata anche nei suoi rioni più modesti e nei vecchi caseggiati un po’ fatiscenti, degli animali domestici, degli amici, della chiesa, del vecchio parroco, dei rari pomeriggi al cinema, delle vacanze in luoghi nuovi, di tutto quel vasto insieme che rendeva ogni giornata una nuova avventura, specie nelle lunghe serate estive, totalmente spensierati perché liberi dalla scuola. Ma anche da giovani e nell’età adulta capitano dei momenti magici così – sempre più rari, a dire il vero. Capitano anche ai nonni, quando, per esempio, s’inteneriscono cullando il nipotino, oppure ritrovando, in fondo a un armadio, le foto dei genitori quando si erano appena sposati, e avevano ancora negli occhi quella luce di aspettazione gioiosa che di solito si accende in viso una volta nel corso della vita.
Oppure quando ci s’imbatte in maniera del tutto inaspettata nelle propria fotografia della prima Comunione, e si torna per un attimo col pensiero a quegli anni lontani, e ci s’immedesima, e ci si prova a rivedere il mondo, le cose, le persone, le situazioni, come le si vedeva allora: tanto più grandi, tanto più avvolgenti, tanto più misteriose di come poi, giorno per giorno, e quasi sfarinandosi nella stretta delle dita, si sono rivelate. Si sono rimpicciolite a mano a mano che perdevano quell’alone luminoso, a mano a mano che perdevano la poesia. Si sono immeschinite. Raramente un vecchio soldatino o un vecchio quaderno possono suscitare ancora qualche vero palpito di emozione; sono divenuti inerti, come fossero estranei; ma una fotografia no, una fotografia può ancora accendere e rinnovare il miracolo dell’infanzia. Perché il quel lontano sorriso, in quel grembiulino coi bottoni, in quel piccolo corpo che poi è così cambiato, è rimasto qualcosa della nostra vera essenza. Prima che apprendessimo la triste arte di dissimulare.
La struggente sensazione di aver perso qualcosa di noi, qualcosa di essenziale, qualcosa dal valore incommensurabile, la proviamo quando ritorniamo, a distanza di tanti anni, nella città dove siamo nati e alla quale sono legati rutti i nostri più cari ricordi. La coscienza del tempo passato irrimediabilmente, l’assenza di tutte quelle figure, parenti, amici e semplici conoscenti, che ce la rendevano tanto cara, anzi assolutamente unica, è solo una parte della delusione e del disincanto. La parte più grossa viene da un’altra fonte, e cioè dal fatto che quel cortile, quei muri, quelle finestre, quel cancello – quel cancello che magari per anni abbiamo rivisto nell’immaginazione, abbiamo sognato, ci è parso quasi d’impugnarne la maniglia a forma di chiocciola, e abbassarla sollevando un leggero cigolio di molle arrugginite -, quei mobili, se pure sono rimasti intatti e al loro posto, così come li ricordavamo: ebbene tutto è ancora lo stesso, però non è più lo stesso. Siamo cambiati noi: e la nostra disposizione al fantastico e al meraviglioso, la nostra spontanea capacità d’ingentilire i particolari più prosaici e di conferire un alone incantato, quasi fiabesco, agli oggetti più normali, è emigrata chissà dove, ci ha lasciati come un amico che non ha salutato e che, in mezzo alla confusione di mille altri avvenimenti, abbiamo notato quasi per caso che non era più lì, accanto a noi. E solo allora ci siamo accorti di che razza di amico straordinario fosse! Un amico che sa rendere bella, o almeno interessante, ogni cosa; che per ogni cosa, anche la più banale, sa scorgere il lato intrigante, il lato nascosto; che ci strappa un sorriso o un moto d’entusiasmo dinanzi agli eventi più comuni, e che ci trasmettere una folle voglia di correre, di saltare come matti, o, non potendolo fare fisicamente, di sbizzarrirci con la fantasia, nelle maniere più impensate e originali – ma sempre prendendo i suoi materiali d’ispirazione da tutto ciò che è piccolo, umile, modesto.
Anche ammettendo che la città, a distanza di trenta, quaranta, cinquant’anni, non sia cambiata molto, anzi che non sia cambiata quasi per niente. Che non sia cresciuta, che non siano stati creati nuovi quartieri abbattendo i vecchi; insomma, anche nel caso eccezionale – ma non impossibile, e in fondo non raro – che alla superficie sia rimasta come prima, che perfino la pittura a calce dei muri esterni e gli scuri di legno ai balconi – siamo rimasti come prima, dove sono quei bambini che la popolavano allora? E chi sono questi nuovi bambini, che parlano con l’accento dell’Est, e che non si sa neppure da dove mai siamo arrivati? Perché tante chiese sono chiuse? E quel negozio di pasticceria, che fine avrà fatto? E quell’osteria dentro l’antico cortile? E quell’aquila impagliata che troneggiava sopra il bancone e dava il nome al locale? E la grande scuola elementare, perché è così silenziosa, e nessun alunno si affacci ai suoi portoni? L’hanno adibita a qualche tipo di ufficio? Non ci sono più abbastanza bambini di scuola elementare, nel pieno centro di una città di centomila anime? E quella stradina di periferia dai muri coperti d’edera e i gerani alle finestre, nella quale ci eravamo soffermati con alcuni amichetti a farci le più matte risate per non so più quale sciocchezza, come mai adesso ha quell’aria neutra e indifferente, come se non mi conoscesse e non sapesse neppure chi sono?
E lì, lì, proprio lì, dove ora c’è una serranda abbassata, non c’era un negozio di fruttivendolo? E lì, nell’androne della vecchia strada buia come l’ingresso di una caverna, non c’era una di quelle vecchie fontane cittadine, verdi e massicce, ch’era un piacere solo a vederle, specie per dei ragazzini eternamente accaldati e assetati dal correre e giocare? E i cigni che, silenziosi e pettoruti, si lasciavano portare dall’acqua della roggia tutto intorno ai giardinetti, fin sotto il busto del poeta che tutti conoscono solo per via della targa col suo nome, ma del quale forse nessuno ha più letto un verso da quasi cent’anni a questa parte? Insomma: è tutto come prima, ma è tutto diverso da prima. Come in quei film o romanzi di fantascienza nei quali il protagonista capisce d’essere finito in un pianeta strano, o meglio in una realtà parallela, perché tutto è uguale a sempre, ad eccezione di alcuni dettagli assolutamente secondari, che solo un attento osservatore non tarda a riconoscere. E come potrebbe essere disattento colui che per anni, per decenni, si può dire ogni giorno e spesso anche nei sogni notturni, non ha fatto altro che immaginare, rivedere, carezzare, abbracciare, la città carissima della propria infanzia?
E cos’è che rende tanto amabili quei ricordi; che li avvolge di una fiammeggiante aureola di poesia; che li rende quasi sacri, al punto che a un tratto il cuore comincia a battere, a battere forte, come se volesse salire in gola, come se una rivelazione improvvisa dovesse far cadere le foglie secche del tempo e restituire a ogni oggetto la sua luce, il suo splendore, la sua gioia di esistere? Senza dubbio, non le cose in se stesse - le strade, le case, i cortili, le osterie, i ponticelli, i canali, i tetti, i campanili, i piccioni, le bancherelle del mercato, l’angelo sul colle del castello – ma la particolare tonalità affettiva in cui esse sono state percepite e scoperte, la prima volta, intrecciate tutte insieme, così da formare un quadro armonico e unitario, il quadro della mia città. Mia, nel senso più pieno, più possessivo, più esclusivo della parola; e città, nel senso che è la città per antonomasia, e che sarebbe impossibile confrontarla, sotto qualsiasi punto di vista, con qualsiasi altra, più grande o più piccola, più bella o più brutta.
Ma allora, questa città, non solo è mia nel senso che io solo la posso capire, perché io solo l’ho vista in quella luce, circondato dall’amore dei quei genitori, rassicurato dalla presenza di quelle maestre e di quei sacerdoti, allietato dalla frequentazione di quegli amici, unici, insostituibili, perché gli amici d’infanzia non sono una scelta, ma un destino, e perderli nel corso degli anni, per i casi della vita, è come perdere una parte di se stessi. Ma anche perché già allora non loro, non gli amici, non le maestre, non gli altri, la potevano vedere e amare come la vedevo e l’amavo io, con quell’amore così geloso ed esclusivo. Sì, certo, molti di loro l’avranno amata a loro volta; molti di loro l’avranno sentita come l’unica patria possibile, come l’unico luogo del cuore immaginabile per il resto della loro vita. Ma vederla esattamente come la vedevo io, e amarla nella stessa identica maniera, non sarà mai stato possibile: perché ciascuno vede le cose con il mezzo dei propri occhi; e ciascuno le ama, se le ama, con il cuore che Dio gli ha dato, e non con un cuore qualunque, suscettibile di emozioni intercambiabili.
Dunque: primo punto: la bellezza è in noi che guardiamo, è nei nostri occhi, nel nostro cuore, nel nostro sentimento. È fatta per metà di oggetti reali e oggettivi, e per metà di qualche cosa d’altro che ci aggiungiamo noi, specialmente da bambini: perché il bambino, quando scorge il mondo per la prima volta, è uno straordinario artefice, non si limita a registrarlo come farebbe un qualsiasi topografo o un agrimensore, vi aggiunge, per abbellirlo, una quantità incredibile di piccole cose, di fantasie, di sogni, di ritocchi. E se ha “deciso”, forse dietro suggerimento di un adulto, che dietro quel portone dall’aria un po’ nascosta, sempre chiuso anche nelle giornate di sole, si annida una signora pazza che è un po’ anche una strega, nessuno potrà mai più levargli quella certezza dalla testa; e finché la casa misteriosa col portone sempre chiuso seguiterà ad esistere, per lui, anche dopo anni e anni, ci sarà pure, nascosta in qualche stanza, la signora pazza e un po’ strega, e penserà a lei con un misto di apprensione, di dubbio e di pietà; ma continuerà a crederci, perché i sogni e le fantasie dei bambini durano molto più a lungo delle cose di tutti i giorni, sono fatti di una sostanza assai più tenace, praticamente indistruttibile
E, secondo punto: se la bellezza delle cose è in noi, a maggior ragione lo è quella dei ricordi, che sono le copie delle cose d’un tempo, con l’aggiunta della nostalgia lungamente coltivata verso di esse, trascorsa l’ora magica dell’infanzia.
Infine, punto terzo: quelle cose bellissime, quelle cose che ci hanno fatto battere il cuore, la letterina scritta per la mamma, le lunghe mattine d’estate trascorse immersi nei giochi, il minuscolo paesino di campagna sperduto fra i campi di granturco, con la sua chiesetta, la sua osteria, la sia piazzola e le sue otto o dieci case tutto intorno, con le stalle e i pollai: tutte queste cose non sono sparite, non se ne sono “andate via” da nessuna parte; sono ancora qui, dentro di noi, in qualche piega dimenticata del nostro essere. Ci hanno sempre accompagnato, anche a nostra insaputa: perché noi non saremmo cresciuti affatto, non saremmo diventati quel che siamo diventati, se ci avessero abbandonato. E non se ne andranno mai più. Le ha raccolte, tutte quante, Dio nella sua mano, e le conserva per noi, per offrircele, suprema consolazione, nell’ultima visione. Quando sarà il momento, Dio aprirà la mano e ce le farà rivedere tutte: e noi ritorneremo come allora, luminosi e innocenti, e gioiremo di essere come la prima volta.
Allora, e solamente allora, avremo la certezza di non aver vissuto invano.