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La nociva utopia di Don Milani

don lorenzo milani la verità marcello veneziani May 29, 2023

Dal ’68 in poi un personaggio di culto della nostra scuola “democratica” è don Lorenzo Milani, di cui ricorre domani il centenario della nascita. Di lui ho il rispetto che si deve agli idealisti generosi, in buona fede; ma insieme riconosco i danni della sua amorosa utopia. Perché furono negativi gli effetti delle sue buone intenzioni sui giovani, l’educazione, la scuola e la morale. Don Milani praticava la carità, si dedicava ai ragazzi con tutto il cuore, nella Firenze dei La Pira, don Balducci e don Turoldo, ed è morto giovane. Don Milani sognava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Nobili intenzioni, ma spostiamoci sugli effetti. La scuola di oggi che onora don Milani e non certo il modello della scuola di Gentile, fa assai più schifo della scuola di allora; non premia i meriti e le capacità, non educa, non stimola alla cultura e non suscita spirito di missione nei docenti; non produce affatto alunni più liberi ed uguali. E’ una scuola che ha ingigantito le distanze tra ricchi e poveri; sfasciata la scuola pubblica, i benestanti hanno mandato i loro figli alle private. Se togli i meriti resta il censo, resta quel che ti dà la famiglia. Al nostro liceo il preside era figlio di contadini e da ragazzo faceva il contadino pure lui; e il professore di lettere aveva umili origini. Grazie alla loro tenace capacità, si erano fatti strada; il latino per loro non era una forma di oppressione di classe, come sostenevano gli allievi di don Milani, ma un mezzo per emanciparsi, persino un mezzo di rivalsa rispetto ai ricchi, pigri, incolti e viziati. La selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto, la loro affermazione. I seguaci di don Milani chiesero di abolire i grembiuli, ritenuti strumenti di oppressione e di irregimentazione; così risaltano le differenze di classe tra i figli griffati della classe agiata e i poveracci di borgata. La conoscenza della lingua italiana era un modo per uscire dalla loro origine umile e contadina e integrarsi. La valorizzazione del dialetto e del gergo quotidiano, che voleva don Milani, invece li restituisce alla loro condizione di partenza e al turpiloquio delle periferie degradate. Livellando si, ma verso il basso: anche i figli di papà usano il turpiloquio sgangherato della tv e di borgata. La fine della leva obbligatoria, come sognava don Milani, ha prodotto la fine di uno dei pochi luoghi di socializzazione in cui i terroni convivevano coi polentoni, i ricchi coi poveri.
Nella Lettera a una professoressa, diventato testo di culto democratico, Don Milani scrive a proposito di «selezione suicida»: «Una scuola che seleziona distrugge la cultura» (p.105); «La selezione è un peccato contro Dio o contro gli uomini» (p.106) e «il frutto della selezione è un frutto acerbo che non matura mai». Quanto male hanno fatto queste parole, pronunciate in buona fede da un generoso utopista, alla scuola italiana? Ogni selezione per lui era classista ma se non premi i più capaci e meritevoli, alla fine azzeri la scuola. E i più fortunati, in assenza di meritocrazia, sono i figli di papà, che dispongono di più mezzi, più conoscenze, più aiuti. La meritocrazia è l’unica arma di chi non ha protettori. Quanto male hanno fatto alla scuola le sue tirate contro la cultura, la filosofia, la pedagogia, la letteratura, i classici e Dante, la sua idea di ridurre i libri a uno solo da leggere collettivamente come in un soviet dell’ignoranza? Quanto male ha fatto alla scuola il suo disprezzo verso la cattedra, i prof, i voti e i registri, il suo auspicio di un sindacato genitori, la sua scuola assembleare fondata sul presente e sull’utilità, la demagogica convinzione che «nel programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora (insegnante) l’ha letto? Non si vergogna?» (p. 29). Scrivendo poi che «la cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola» (p. 105) quanti parolai demagogici ha incoraggiato? Armò d’arroganza gli ignoranti. E gli studenti meritevoli che liquidati come «arrivisti» (p. 96, p.117). Quanto male ha potuto fare in menti bacate l’esortazione ai partigiani a riprendere la lotta armata in tempo di pace, libertà e democrazia («Se la sapesse tutta pover’uomo riprenderebbe il mitra» p. 63)? E il disprezzo per i moderati apolitici bollati come «fascisti» (p. 108) e poi l’elogio un po’ fascista della frusta (p. 82) e di strumenti didattici come gli «scapaccioni», i «cazzotti» oltre a qualche «salutare cinghiata»; il mito egualitario e l’attacco a un preside e ai suoi professori per una frase di assoluto buon senso come: «La Costituzione purtroppo non può garantire eguale sviluppo mentale, eguale attitudine allo studio» (p. 61). Infine un dubbio: la sua critica della storia ad uso dei vincitori, con «i vinti tutti cattivi, i vincitori tutti buoni» (p. 123) vale anche per l’antifascismo? L’involontario effetto del milanismo fu, come scrisse Sebastiano Vassalli su la Repubblica la fuga dalle scuole pubbliche in quelle private; don Milani cominciò a buttare via i libri «e i suoi seguaci sessantottini buttarono via tutto il resto». Vassalli, «poveraccio figlio di poveracci», riteneva «una mascalzonata» il libro di don Lorenzo, con «i buoni da una parte e i cattivi tutti dall’altra» e «il linciaggio morale» dei professori di allora.
Invece, ricorre in silenzio tra qualche giorno un altro centenario della nascita di un altro cattolico fiorentino: è Attilio Mordini, cattolico della tradizione, studioso dei miti, morto anche lui a 43 anni, l’anno prima di don Milani. Mordini capì che la scuola senza educazione, tradizione e meritocrazia non ha più un ruolo e a farne le spese sono più i poveri che i benestanti. Vorrei che don Milani fosse ricordato con Mordini: il fiorentino e cattolico Franco Cardini, che li amò entrambi, sarà d’accordo. Don Milani va riconosciuto per la sua forte personalità e la sua grande idealità ma fu un cattivo maestro. A giudicare dai frutti, non dalle intenzioni. Non un maestro cattivo, al contrario, ma un cattivo maestro.