Medicina nel caos: il flop delle Case di Comunità
May 29, 2023Uno dei più difficili problemi della Sanità Pubblica è la Medicina dei territorio. Durante il biennio pandemico, tra i vari errori con cui i governi di Conte e Draghi gestirono lo stato emergenziale, emerse con drammatica chiarezza che in Italia la situazione relativa all’assistenza sanitaria di base è a un livello critico. In estrema sintesi: ci sono sempre meno medici di base. La carenza dei medici di famiglia ha ragioni diverse: mancata programmazione, medici con numeri esorbitanti di assistiti e “desertificazione” nelle aree disagiate che finiscono per comportare l'impossibilità di trovare un medico di base nelle vicinanze del domicilio, con conseguenti disagi e rischi per la salute". Le situazioni più critiche per la carenza di questi professionisti si trovano nelle grandi Regioni del Nord: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, e per quanto riguarda il sud la Campania.
Il Governo Draghi volle mettere mano ad una riorganizzazione della Medicina del Territorio, pensando a dei cambiamenti radicali in un settore strategico per le cure e per le professionalità coinvolte, portando a rivedere il ruolo del medico di medicina generale. Si fece strada l’ipotesi di passaggio ad un rapporto di dipendenza. In pratica, medici di base e pediatri non sarebbero più - come ora - dei liberi professionisti convenzionati col Sistema Sanitario, Nazionale e Regionale, ma dei dipendenti pubblici, esattamente come lo sono i Medici Ospedalieri. La CGIL accolse con entusiasmo questo progetto, che prevedeva una riorganizzazione della rete territoriale basata sulle cosiddette "Unità complesse di cure primarie" (Uccp): strutture che ospiterebbero più medici di base, infermieri e segreteria in grado di tenere aperti ambulatori e servizi diagnostici di base con maggiore continuità. Questo però sacrificherebbe l’autonomia professionale del medico, o quel che ne resta, perché tra protocolli e linee guida e altri binari obbligati di tipo burocratico questa autonomia è da tempo erosa, e la pandemia lo ha rivelato in modo clamoroso.
Queste unità organizzative avrebbero preso il nome un po’ vintage di “Case di Comunità”, con la trasformazione di quello che un tempo non lontano era chiamato anche “medico di famiglia” da libero professionista a lavoratore subordinato di un’organizzazione statale. Il modello di ispirazione per queste nuove strutture sanitarie di base era nientemeno che il Venezuela di Chavez, dove da tempo sono state introdotte e dove hanno già clamorosamente fallito, portando ad un’offerta di servizi alla persona sempre più scadente.
E la situazione che l’attuale Ministro della Salute Schillaci si trova ad avere ereditato ci rivela un clamoroso flop di questo progetto, che fu sposato con grande entusiasmo anche da Letizia Moratti quando si trovò ad essere Assessore al Welfare della Lombardia. Ad oggi infatti meno del 10% delle case di comunità annunciate in pompa magna nella precedente legislatura sono state realizzate, e sono presenti in sole cinque regioni. Dato l’enorme ritardo nel progetto, forse varrebbe la pena chiedersi se vale la pena proseguirlo. Lo stesso ministro della Salute si è detto perplesso: «Sono fiducioso che si possano realizzare tutte le Case di Comunità previste dal Pnrr ma potremmo avere dei problemi di fondi visto che rispetto a quando sono stati erogati – spiega il ministro – i costi sono lievitati sensibilmente. Inoltre nello stanziamento non era prevista alcuna disponibilità per il personale e le attrezzature».
E non solo. Se la CGIL aveva sposato il progetto draghian-chavista, altri sindacati ora mostrano tutto il loro scetticismo, come il Sindacato medici italiani (Smi), con il segretario generale Pina Onotri,che è convinta che le Case di Comunità non siano la soluzione alla crisi dei medici di famiglia. «Preoccupa molto la riforma che prevede l'istituzione delle Case di Comunità. Abbiamo il timore che si voglia far fronte alla carenza dei medici di famiglia spostandoli da una parte all'altra del territorio: chiediamo un ripensamento in toto del D.M. 77 che riorganizza la medicina territoriale».
Altri dubbi arrivano dal sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato che ha dichiarato: «Nelle 1.350 case di comunità previste dal Pnnr chi ci mettiamo, quale personale utilizziamo per farle effettivamente funzionare? Le strutture sanitarie previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza sono al momento prive di risorse professionali che ne garantiscano l'attività». Un tempo si parlava di “cattedrali nel deserto”, e questa definizione si adatta perfettamente al caso delle case di comunità. Resta l’amarezza del constatare come per anni per quanto riguarda l’organizzazione della sanità pubblica si sia veramente navigato a vista, fino a finire sugli scogli. E intanto di anno in anno i medici diminuiscono di numero, il tutto a discapito del bisogno di cura di una popolazione sempre più anziana, fragile, e bisognosa di assistenza. Portare la nave fuori dalle secche e rimetterla in navigazione non sarà facile, ma è assolutamente indispensabile.