Morale e realtà, un parallelo poco considerato
Jul 13, 2023Tre notizie prese dalla rete, notizie che non fanno più notizia. L’Ordine degli psicologi lombardi ha aderito al Milano Pride. Il cortometraggio Come abortire è stato premiato con il BAFTA 2023, assegnato dalla British Academy of Film and Television Arts. Planned Parenthood, la più grande organizzazione abortista al mondo, ha affermato che la verginità è «un costrutto sociale», retaggio di una mentalità patriarcale.
Molte le differenze tra queste notizie e molte anche le analogie. Tra queste ultime possiamo trovare il parallelo tra morale e realtà. Pensate se l’Ordine degli psicologi lombardi, la BAFTA e Planned Parenthood usassero nella realtà lo stesso metro di giudizio adoperato in campo morale. Ad esempio: come l’aborto è un bene, così riteniamo un bene lavarsi i denti con un rasoio. Come è un bene per alcuni l’eutanasia così è un bene buttarsi dal quinto piano invece di prendere l’ascensore. Se l’omosessualità è un bene, perché non potrebbe esserlo anche mangiare sassi?
Sì, è una provocazione iperbolica, ma forse ci fa capire una cosa molto semplice: nella vita reale rispettiamo le regole imposte dal reale, altrimenti ne paghiamo le conseguenze. Nella vita morale è più facile non rispettare le regole morali – anzi, ci pare proprio che non esistano regole – perché siamo convinti che non ci siano conseguenze negative, bensì solo vantaggi: la libertà, sbarazzandosi del figlio non voluto e della moglie non più voluta; il piacere nell’assumere droghe; la felicità nel diventare genitori “provetti”, ossia tramite provetta; la serenità di morire con l’eutanasia senza più soffrire. Ma è solo un’apparenza. Tommaso d’Aquino parlava di beni apparenti. Di certo qualche vantaggio nel fare il male ne viene, altrimenti perché compierlo? In Genesi infatti possiamo leggere: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (3,6). Ma è un vantaggio di poco spessore e di corto respiro. Un bene, alla fine e per l’appunto, apparente.
Infatti, quando si compie il male, anche affrontando la questione come potrebbe affrontarla un ragioniere e volendo lasciare da parte il criterio principale del rispetto della dignità personale, nella colonna delle entrate poche sarebbero le voci presenti e di scarso valore, mentre nella colonna delle uscite le voci sarebbero innumerevoli e di grande peso. L’aborto annienta le donne con la sindrome post-abortiva; l’eutanasia lascia nei parenti sopravvissuti sentimenti di colpa per non aver dissuaso il proprio caro dal togliersi la vita e incentiva una mentalità di abbandono terapeutico le cui conseguenze toccheremo tutti con mano; l’omosessualità praticata allarga sempre più quella ferita nell’autostima da cui nasce proprio l’orientamento omosessuale; il “cambiamento” di sesso deturpa il corpo di uomini e donne e la loro psiche ne esce sempre più devastata; la contraccezione ormonale espone a rischi tumorali, quella di barriera facilita per paradosso la diffusione di malattie veneree (si chiama risk compensation); il divorzio mette un ceppo alla felicità dei figli; la fecondazione artificiale, oltre ad uccidere una pletora di figli, ne mette al mondo altri la cui salute è a rischio. Quindi, anche con un approccio meramente utilitarista, il male non paga. Non è dunque un buon affare stringere accordi con gli abortisti, i dolcemortisti, gli attivisti della provetta, gli esponenti del mondo LGBT. Questo perché la realtà morale è strettamente connessa con la realtà empirica, dato che la persona è composta di anima e corpo. I danni nel primo ambito si ripercuotono nel secondo, dato che le due realtà sono vasi comunicanti.
Ma soprattutto il danno peggiore è la mancanza di felicità, perché se la realtà empirica ha le sue leggi, anche la realtà morale ne ha. Se ti butti dal quinto piano muori fisicamente, se ammazzi il figlio con l’aborto, muori moralmente, muori dentro. Tutti gli effetti prima indicati, per il singolo, potrebbero essere anche eventuali. Se gli va bene non sconterà nessuno di questi effetti indesiderati (se gli va molto bene). Ma c’è un effetto a cui è impossibile sottrarsi. La tristezza di vita che travolge tutti noi ogni volta che compiamo il male. Perché la felicità, come insegna sempre l’Aquinate, è connessa con il bene. È impossibile essere felici se compiamo il male. Potremmo essere sì contenti, allegri, spensierati, anche entusiasti, eccitati ed euforici, ma la felicità è altra cosa. La felicità sta all’allegria come una mela sta ad una mela di plastica. Potremmo allora essere, per parafrasare il cardinal Biffi, sì sazi, ma tanto disperati. La contentezza e l’allegria sono come la bianca e frizzante spuma che si forma sulla superficie delle onde, ma al di sotto di esse, nelle profondità marine, possono dominare l’oscurità e il gelo. La distrazione, ossia la continua tensione verso i beni sensibili, è l’oppio per non sentire che nel fondo non c’è più vita. Chi compie il male vive istanti di soddisfazioni e, insieme a questi, il lungo «inverno del nostro scontento» (W. Shakespeare, Riccardo III, Atto I, Scena I, Monologo).
Eppure tutti noi – non solo gli abortisti e gli uomini arcobaleno – cerchiamo in continuazione quella mela di plastica, perché l’altra mela è molto più difficile assaggiarla. Ci cibiamo di plastica, stiamo male e pensiamo che la soluzione sia mangiarne ancora. È un po’ come lavarsi i denti con un rasoio e poi le ferite procurate le addebitiamo agli altri o al destino avverso e pensiamo che per guarirle si debba diventare adepti della Gillette.
Ecco allora che la prima operazione da farsi è un’operazione verità. Per le tematiche eticamente sensibili significa raccontare a tutti che abortire e avere un figlio in provetta sono come buttarsi giù dal quinto piano di un palazzo. Per queste tematiche e per tutte le altre, ricordare e ricordarsi che la felicità ha un solo nome e cognome: Gesù Cristo.
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