RUBRICA "STORIA"
A PARTIRE DALLE FONTI STORICHE, CIOE' LA VERITA'
PROF. ROBERTO BONUGLIA
Roberto Bonuglia (1978) ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e formazione dei processi socio-culturali e politici dell'età contemporanea presso il Dipartimento di Studi Storici dell'Università degli studi di Roma "La Sapienza". Storico di scuola defeliciana, assegnista di ricerca, ha collaborato con l'Istituto Luce ed è stato presidente de Il Tempo La Storia. Collabora con diverse testate giornalistiche e riviste. In occasione delle celebrazioni del 150esimo Anniversario dell'Unità d'Italia, ha ricevuto la Medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica Italiana per il progetto "Storia dell'Unità italiana" svolto nelle Scuole Primarie del Lazio. Collabora settimanalmente con il canale Youtube Fides et Ratio, dove potete trovare numerosi suoi video (qui e qui).
Tra le sue ultime pubblicazioni:
- Dalla globalizzazione alla tecnocrazia. Orientamenti di consapevolezza distopica del Terzo millennio (con prefazione del prof. Francesco Lamendola).
- Terze pagine. Biografismi e storie all'ombra di Clio.
- All'ombra della vulgata. Pagine epurate e distorsioni storiografiche nel regno di Clio (con prefazione del Prof. Augusto Sinagra).
PIllola n.1 - UNA TERZA VIA PER USCIRE DALLA CRISI
Partiamo da un dato. Ci troviamo, da qualche tempo, nella crisi «più grave che mai si sia verificata in tutto il corso della storia umana»1. Una situazione drammatica per uscire dalla quale pare necessario offrire un primo contributo al superamento dell'attuale insufficienza – o peggio ancora, maliziosa strumentalità – delle analisi storico-economiche, geopolitiche, filosofiche e financo "spirituali" invalse nei mezzi di "distrazione" di massa (dalla Tv ai social network).
Da qui l'esigenza che tale premessa genera: quella di definire un modello di superamento – nonché, ovviamente, di confutazione – delle invalse e quasi sempre bipolari analisi imposte dal mainstreaming che, de facto, non è altro che un processo attraverso il quale innovazioni sperimentate in un ambito circoscritto - sociale, economico o istituzionale - vengono poi trasposte a livello di "sistema" in un ambito più generale diventando leggi e prassi alle quali è difficile - se non impossibile o inutile -opporsi, avanzare delle critiche o semplicemente dissentire.
Serve quindi una "Terza via" che assumendo l'obiettivo di porre le basi per un'alternativa consenta non solo di fare previsioni, ma anche di elaborare ipotesi operative alternative al pensiero debole per come questo è stato introdotto in filosofia dai Gianni Vattimo, dai Pier Aldo Rovatti, dagli Umberto Eco e volto al coming out verso un "soggetto debole"2.
Una via che sia "Terza" poiché distinta e procedente in senso opposto e contrario alla pur asimmetrica declinazione che l'attuale dibattito ha assunto nell'opinione pubblica italiana, europea e mondiale. Diremmo anche "globale" come globale è il villaggio regalatoci dall'ultimo trentennio, quello tra la caduta del Muro di Berlino (1989) e l'originarsi della prima crisi sanitaria – anch'essa globale – che si ricordi (2020).
Ci si riferisce, nello specifico, ad un evento svoltosi il 21 settembre 2019 tra Bernard-Henry Lévy e Alexander Dughin, a Amsterdam, in occasione del Nexus Symposium e nel corso del quale, di fatto, si sono affrontate due opposte visioni del mondo: la prima, “globalista” e la seconda, “identitaria”3. O, per dirla con i termini usati dai due intellettuali, tra una visione “moderna” e “tradizionale”, entrambe naturale evoluzione in ottica filosofica, geopolitica ed economica, di due concezioni della realtà fattuale e futura nonché – per dirla con Eric Voegelin – dell’ordine e della storia.
Un incontro, quello del 2019, che ha anticipato la diatriba tra mondo unipolare e quello multipolare deflagrata in occasione del conflitto russo-ucraino e che a ben vedere aveva già fatto capolino in occasione della crisi sanitaria come confermano le diverse posizioni e gestioni dell’emergenza pandemica (diverse misure, diversi rimedi).
Due visioni, quelle citate, che hanno, però, un DNA convergente e più di un rischio insito in esse essendo entrambe foriere di materialismo ed eredità del bipolarismo della Guerra Fredda e delle due concezioni dell’ordine umano e di quello della coscienza che originarono la ben tristemente nota “logica di Yalta”.
Ci si riferisce alla contrapposizione tra il modello capitalistico-liberista e quello comunista che per 50 anni hanno colonizzato le coscienze dei Paesi in cui i due sistemi si sono imposti più o meno forzatamente dal 1945 al 1991. Modelli, insomma, entrambi convergenti nel mirare da Ovest e da Est a mordere l’Europa – intesa non come Unione Europea, ma come Vecchio Continente – e le sue radici cristiane.
In che modo?
Colpendo la visione e il patrimonio della tradizione europea storicamente intesa dal punto di vista politico, economico e sociale avendo il comunismo negato a prescindere il ruolo e lo spazio della religione ed il capitalismo aggirato e raggirato individualmente le coscienze colonizzandole con l’edonismo, il narcisismo dell’io ed un materialismo ˗ diverso nella forma, ma non nella sostanza dall’altro – eticamente orientato e baricentrato sul consumo.
Un cinquantennio, quello tra il 1945 ed il 1989, durante il quale la visione cristiana della vita è stata attaccata da ambo le parti e dalle visioni citate: con le persecuzioni religiose che venivano da Est, con l’erosione valoriale da Ovest promuovendo, ad esempio, come conferma il caso italiano il passaggio indotto, ma maliziosamente forzato dalla “parsimonia al consumo”, per dirla con Giovanni Aliberti4.
La cartina di tornasole di ciò sono diversi risultati: nei Paesi “occidentali” la democrazia è stata trasformata in democratismo; i postulati dell’economia classica sono stati sostituti dalla tecnica economica; lo sviluppo di un diritto internazionale ha svuotato quelli costituzionali dei singoli Stati; l’identità nazionale è stata demonizzata; la cultura è stata destoricizzata e liquidata dalla globalizzazione e dal connesso neoliberismo.
Dall’altra parte, a Est, si è pensato, che col crollo del muro di Berlino si fosse sgretolato il sogno marxista di creare un “uomo nuovo” come programmato da Marx in un libretto giovanile del 1845-465: un uomo “illuminato” che avrebbe dovuto prendere corpo nella prassi dell’azione rivoluzionaria al fine di liberare l’uomo “dal vecchio fango” e per questo puntare alla rivoluzione permanente di giacobina memoria.
Sappiamo bene come è andata. Altro che fine delle ideologie: “crollato” il comunismo tutto è stato fagocitato dalla visione utilitaristica del capitalismo e del suo edonismo ‒ non meno anticristiana di quella materialisticamente atea del comunismo di derivazione marxista e stalinista ‒ che ha permesso di far salire in cattedra per decenni «l’irrazionale, il folle, il mostruoso, l’orrido, il demoniaco» distruggendo «quella cosa essenziale per la sopravvivenza degli uomini e della società che è il buon senso, vale a dire la percezione sana e realistica del reale e di tutto ciò che concerne la nostra esistenza. Più di mezzo secolo prima del nostro tempo, quando la cosa è ormai del tutto evidente (ma a percepirla continuano ad essere pochi: segno certissimo dell’avvenuta scomparsa del buon senso) qualcuno si era reso conto del capovolgimento del giudizio sui fatti essenziali della vita e sulla capacità di riconoscere e distinguere il vero dal falso, il bene dal male e il bello dal brutto, una facoltà senza la quale l’uomo, l’unico essere vivente che la possiede, è fatalmente destinato ad autodistruggersi e a scomparire. Per inguaribile idiozia»6.
Torna in mente, insomma quanto scrisse Eric Voegelin su Merkur nell’aprile 1952: «La furia del sangue marxista attiene allo stesso tipo simbolico della mistica nazionalsocialista, che, attraverso i misteriosi chimismi di corpo e sangue, plasma gli uomini del millennio; e nello stesso scritto di un teorico di diritto costituzionale del periodo nazionalsocialista noi troviamo, in effetti, […] la stessa formula di Marx: “Il fango deve essere eliminato”»7.
L’idea, insomma, di creare un “superuomo” ‒ oggi sempre più un “superconsumatore” ‒ non è solo come si è maliziosamente usi credere “di destra”, ma anche marxista e ciò trova conferma nel falso spiritualismo impersonato, come scritto da Francesco Lamendola «da figure come Alexander Dugin, il quale va dicendo che è necessaria un’alleanza fra tutti coloro che credono nello “spirito” contro le forze maligne della globalizzazione, ma nella cui formazione e nel cui bagaglio culturale più profondo s’incontrano, oltre a Guénon ed Evola»8 altri discutibili personaggi.
Da ciò deriva una sorta di “rossobrunismo”, filosofico-politico quanto esoterico, insomma, da quale guardarsi bene come conferma il punto di arrivo dell’analisi dughiniana, quella di creare un altro “uomo nuovo”, un soggetto “radicale” – diverso dal soggetto debole dei Vattimo e degli Eco – ma non meno pericoloso poiché Mōlek di una sorta di “relativismo” esoterico.
Al quale serve contrapporre oggi, una Terza via che voglia distinguersi dalle altre due brevemente delineate deve invece assumere tutt’altra bussola: quella della Parola di Dio, nella quale è scritto in 1° Tessalonicesi 5:5 «Voi tutti, infatti, siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre». D’altra parte, nello stesso Vangelo di Luca si legge (11:35) «Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra».
E tale non può essere una necessaria e auspicabile Terza via baricentrata filosoficamente sul tomismo e religiosamente ispirata dal Cristianesimo.
1 F. Lamendola, Carta di Venezia 2022, in «Corriere delle Regioni», del 20 giugno 2022.
2 R. Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Milano-Udine, Mimesis, 2010.
3 A. Dughin, B.H. Lévy, Lo scontro tra identitari e globalisti nel dialogo tra Aleksandr Dugin e Bernard-Henri Lévy, in «Barbadillo», del 26 agosto 2020, ora in https://www.barbadillo.it/92889-lo-scontro-tra-identitari-e-globalisti-nel-dialogo-tra-aleksandr-dugin-e-bernard-henri-levy/.
4 G. Aliberti, Dalla parsimonia al consumo. Cento anni di vita quotidiana in Italia (1870-1970), Firenze, Le Monnier, 2003.
5 K. Marx, Ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1969.
6 F. Lamendola, Carta di Venezia 2022, cit.
7 E. Voegelin, Deutsche Zeitschrift fur Europaisches Denken, in «Merkur», aprile 1952 ora in G.F. Lami (a cura di), Trascendenza e gnosticismo in Eric Voegelin, Roma, Astra, 1979, p. 163.
8 F. Lamendola, Vero e falso spiritualismo, in «Corriere delle Regioni», del 6 maggio 2022.
Pillola n.2 - L'IRI E IL CONTRIBUTO DEI GIOVANI CATTOLICI FORMATISI IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE
Da luogo simbolo della formazione della nuova elite dirigenziale, l'Iri divenne per essa – insieme alla stima dei danni provocati dal conflitto – uno dei primi problemi da risolvere: concepito inizialmente dal fascismo come uno strumento temporaneo di riorganizzazione e ridefinizione del sistema creditizio e divenuto – durante il ventennio autoritario –, uno dei centri vitali dell'economia nazionale, al termine del conflitto, L'ente fu considerato da molti «il principale artefice del corporativismo del passato regime e l'espressione più autentica dell'economia fascista». 1
Una polemica, questa sulle sorti dell'Iri, che era iniziata – con la guerra ancora in corso – negli ultimi mesi del 1944, proprio quando i tecnici di Via Veneto, coordinati da Saraceno,2 erano già impegnati nella «redazione del quadro complessivo dei problemi economici che andavano affrontati con la fine del conflitto»,3 allo scopo di pianificare l'utilizzazione «dei fondi e delle risorse materiali unilateralmente messi a disposizione degli Stati Uniti»4 che avrebbero reso possibile la riattivazione e la riconversione dell'industria italiana.
Il dibattito sul destino dell'Iri si spostò presso la Sottocommissione per l'industria della Commissione economica dell'Assemblea Costituente e fu allora che i "cattolici di sinistra" presero una posizione ufficiale attraverso gli articoli di Franco Rodano,5 scritti con il chiaro intento di «sottrarre in tempo l'immagine pubblica dell'Istituto alla nefasta e scorretta identificazione con l'autarchia e lo Stato corporativo fascista»6 e che bene riassumevano le posizioni di quella giovane generazione di studiosi che avrebbe realizzato «l'avvicinamento cattolico alla realtà amministrativa e tecnica dello stato moderno». 7
Quella dei giovani cattolici era solo una delle componenti di quel vasto ed eterogeneo fronte rappresentato dai fautori dell’economia organizzata e che, nato dalla «collaborazione tra politici e “tecnici” antifascisti nell’ambito dell’industria settentrionale»8 aveva riunito in sé, come ricordato da Saraceno, i «rappresentanti di cinque partiti: comunista, d’azione, democristiano, liberale, socialista».9 Era questo il caso della Commissione centrale economica10 che, sotto la guida di Cesare Merzagora – futuro esponente della Democrazia Cristiana11 –, operava in seno al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) presieduto invece da un socialista, Rodolfo Morandi.
Negli anni della ricostruzione e della costituente, perciò, l’elite politico-economica cattolica, formatasi in larga parte negli ambienti milanesi dell’Università del Sacro Cuore, si trovò a dirigere la politica economica del Paese passando rapidamente «dalle discussioni sul pensiero di Toniolo all’esaltazione del keynesismo».12 Fu allora che i giovani cattolici, avendo ormai sviluppato una propria autonoma matrice culturale e politica rispetto al gruppo degli ex popolari,13 si proposero come una classe dirigente nuova e tecnicamente pronta – grazie anche alle esperienze lavorative maturate nei qualificati enti ed istituzioni dello Stato dove prestarono servizio, negli anni tra le due guerre – ad inserirsi «a tutti i livelli di una moderna società industriale e di una moderna società di massa»14 quale si sperava diventasse l’Italia repubblicana.
Formatasi nelle fila del Movimento Laureati di Azione Cattolica e della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci), quella che è stata felicemente definita la «seconda generazione»15 sarebbe stata determinante in sede costituente nella determinazione della politica di indirizzo economico che avrebbe guidato il processo di ricostruzione del Paese. Negli ambienti universitari cattolici, infatti, maturarono sia il ceto politico del principale partito dell’Italia repubblicana, la Democrazia Cristiana, sia i giovani tecnici che, formatisi negli uffici dell’Iri, erano destinati alla guida dei maggiori enti pubblici creati dal fascismo e conservati dal nuovo ordinamento costituzionale.
Attiva fin dai primi anni ’40, l’elite economica della “seconda generazione”, tra i cui esponenti vanno ricordati Giuseppe Criconia, Silvio Golzio, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni, ebbe il merito di avviare una «riflessione tecnicamente assai avanzata sull’intervento dello stato nell’economia e sulle politiche di pianificazione sostanzialmente sconosciuta al movimento cattolico pre-fascista e per molti aspetti originale rispetto anche alla stessa cultura economica accademica».16
Negli anni del secondo conflitto mondiale, stimolata dai Radiomessaggi di Pio XII17 e recepita la lezione di Jacques Maritain,18 la generazione cattolica più giovane si propose di elaborare un documento organico allo scopo di promuovere la ripresa dell’impegno politico dei cattolici sulla base di una sintesi tra Stato, sistema capitalistico e giustizia sociale. Questi furono, infatti, i principi di ordine sociale ed economico che orientarono «la vasta traiettoria progettuale che va dal Codice di Camaldoli (1943-44) all’Assemblea Costituente»19 seguita dai quadri dell’Azione Cattolica e dai professori della Cattolica di Milano, desiderosi di interpretare i mutamenti della società contemporanea e di dare «una risposta conseguente e precisa agli interrogativi che sorgono dalla realtà stessa della vita economica di oggi».20
Paronetto, Saraceno e Vanoni, costituirono, all’interno di quest’elite, un gruppo coeso volto nella ricerca di una sintesi tra iniziativa privata e pubblica «entrambe necessarie ai fini generali della libertà e della giustizia sociale»21 e nella determinazione di questa come categoria politica e criterio-guida verso il quale orientare l’intervento pubblico del quale furono convinti sostenitori. Tutti originari della Valtellina e legati tra loro da vincoli di parentela,22 si trovarono a lavorare insieme già durante gli anni del regime fascista – come fu per i primi due, insieme all’Iri fin dal 1934 – e, trasferitisi a Roma, tra il 1941 ed il 1944, si dedicarono alla redazione – insieme a Giuseppe Capograssi – del documento Per la Comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale, a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli,23 meglio noto come Codice di Camaldoli.
Su questi temi si lavorò in Via Reno, nella Roma occupata dai tedeschi, a casa Paronetto, dove le riunioni iniziarono il 15 settembre 1943,24 a soli due mesi di distanza dalla settimana di cultura religiosa che il Movimento Laureati Cattolici aveva organizzato, come ogni anno,25 a Camaldoli e durante la quale, tra il 18 e il 23 luglio, erano stati formulati 76 enunciati sulla dottrina sociale cattolica con l’intento di stimolare «da un lato la riflessione sugli insegnamenti sociali della Chiesa, […] dall’altro l’osservazione diretta e l’analisi attenta delle reali situazioni socio-economiche e della loro rapida evoluzione».26 Per dare sistematicità agli enunciati elaborati a Camaldoli, Paronetto, Saraceno e Vanoni lavorarono insieme – data la prematura scomparsa, nel marzo 1945, del primo – per la prima e l’ultima volta ma i risultati, raggiunti, in quell’anno e mezzo di incontri, influenzarono in modo indelebile l’intera opera successiva degli ultimi due. Paradossalmente, nessuno di loro era stato presente nelle riunioni tenute nel Cenobio dei Padri Camaldolesi visto che «Paronetto, un fedele di Camaldoli, quell’anno non vi partecipò perché in uno dei giorni dell’incontro era stata fissata la data del suo matrimonio»27 e che gli altri redattori «non parteciparono né a quello né a incontri precedenti».28 Tutti erano però consapevoli che l’obiettivo del lavoro era quello di redigere un documento che, partendo dall’ormai superata sintesi sociale cattolica proposta dal Code Social di Malines del 1927, stimolasse la riflessione dei cattolici «sulle questioni sociali […], sui tremendi problemi che con la fine della guerra si sarebbero dovuti affrontare».29
1 G. La Bella, L’Iri nel dopoguerra, Roma, Edizioni Studium, 1983, p. 13.
2 In un apposito ufficio presso il Ministero dell’Industria, il gruppo di tecnici dell’Iri iniziò a lavorare nell’agosto del 1944 al documento La ripresa della produzione industriale in Italia, ultimato il 12 dicembre dello stesso anno. Fu in base a tale documento, fatto pervenire al Cln Alta Italia nel gennaio 1945, che furono elaborati sia il Programma delle importazioni essenziali per il 1945 sia il Piano di primo aiuto (First Aid Plan). Lo stesso gruppo di tecnici poi, preparò nel 1946 il Piano di massima per la determinazione delle importazioni industriali dell’anno 1946, che, a differenza dei precedenti lavori, rappresentava «la situazione dell’intero territorio nazionale nella nuova prospettiva aperta dalla fine del conflitto». Cfr., P. Saraceno, Intervista sulla ricostruzione 1943-1953, a cura di L. Villari, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 36, passim.
3 Ivi, p. 17.
4 F. Barca, Compromesso senza riforme, in AA.VV., Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, a cura di F. Barca, Roma, Donzelli, 1997, p. 30.
5 Cfr., F. Rodano, Problemi alla Costituente: l’I.R.I., in “Il Politecnico”, a. II, n. 29, maggio 1946, pp. 44-47; n. 30, giugno 1946, pp. 47-48; nn. 31-32, luglio-agosto 1946, pp. 89-90. Lo stesso autore aveva comunque già espresso la sua posizione a riguardo nel 1944. Cfr., Ancora sulla funzione dell’IRI: evoluzione e prospettive di lavoro, in “Voce operaia”, 2 ottobre 1944; Id., Uno strumento delle masse popolari: prospettive sulla funzione dell’IRI, in “Voce operaia”, 25 novembre 1944.
6 A. Ferrari, La cultura riformatrice. Uomini, tecniche, filosofie di fronte allo sviluppo (1945-1968), Roma, Edizioni Studium, 1995, p. 8.
7 A. Ferrari, Le vie del mercato e le vie della politica nella cultura del cattolicesimo italiano del dopoguerra, in AA.VV., L’altra via per l’Europa. Forze sociali e organizzazione degli interessi nell’integrazione europea (1947-1957), a cura di A. Ciampani, Milano, FrancoAngeli, 1995, pp. 267 e ss.
8 L. Ganapini, I pianificatori liberisti, in AA.VV., Gli anni della costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 82.
9 P. Saraceno, Intervista sulla ricostruzione…, cit., p. 46.
10 Membri della Commissione, costituita a Milano, erano, infatti, Domenico Boffito (Pd’A), Mario Ferrari Aggradi (Dc), Luigi Salvadio (Pci) ed Angelo Saraceno (Psiup), fratello di Pasquale. Cfr. M. Cavazza Rossi, Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno: un incontro (1936-1945), in “Economia Pubblica”, a. XXIII, n. 4-5, aprile-maggio 1993, p. 88.
11 Cesare Merzagora, già Ministro del Commercio con l’Estero (1947-1949), ricoprì la carica di Presidente del Senato (1953-1967) e di Presidente della Repubblica supplente dopo la malattia di Antonio Segni (1964). Nato a Milano nel 1898, si formò professionalmente nel gotha dell’economia e della finanza italiana degli anni Trenta. Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale entrò nella Resistenza, facendo da tramite, dopo la Liberazione, tra i partigiani e le elite economiche. Fu poi amministratore di Edison, Bastogi, Alfa Romeo, IRI, Confindustria e Pirelli. Per un’analisi più approfondita del suo ruolo negli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione, cfr. AA.VV., Cesare Merzagora: il presidente scomodo, a cura di N. De Ianni e P. Varvaro, Napoli, Prismi, 2004.
12 A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano, Nuovo Istituto Editoriale Italiano, 1982, p. 15.
13 Così erano definiti gli esponenti ed i quadri dirigenti del Partito Popolare di Luigi Sturzo. Tra essi vanno ricordati alcuni dei componenti del gruppo milanese che ebbero un importante ruolo nella costruzione della Dc nazionale. È il caso dei fratelli Gerolamo e Luigi Meda, di Giovanni Gronchi, di Augusto De Gasperi (fratello di Alcide), di Giambattista Migliori e del figlio Luigi, di Ugo Zanchetta e di Achille Grandi. Per un’analisi più approfondita si rimanda a E. Fumasi, Origini e primi sviluppi della Democrazia cristiana a Milano (1941-1946), in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, a. XXVI, n. 3, settembre-dicembre 1991, pp. 307-351 e M. Cioccarelli, I democratico-cristiani nell’amministrazione comunale di Milano dalla Liberazione al centrosinistra (1945-1960), in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, a. XXXII, n. 2, maggio-agosto 1997, pp. 125-165.
14 R. Moro, Il Movimento laureati nella storia della cultura, in AA.VV., In Ascolto della Storia. L’itinerario dei «Laureati cattolici» 1932-1982, Roma, Edizioni Studium, 1984, p. 29.
15 M.C. Giuntella, I fatti del 1931 e la formazione della “seconda generazione”, in AA.VV., I cattolici tra fascismo e democrazia, a cura di P. Scoppola e F. Trainiello, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 222.
16 R. Moro, I movimenti intellettuali cattolici, in AA.VV., Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, tomo I, L’area liberal-democratica, il mondo cattolico e la Democrazia Cristiana, a cura di R. Ruffilli, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 171.
17 L’allocuzione della Pentecoste del 1° giugno 1941 ed il radiomessaggio del Natale del 1942 rappresentarono i due pronunciamenti più importanti sulla dottrina sociale cattolica. Nel primo, Pio XII attribuiva allo Stato il compito di «tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana», nel secondo, il pontefice assunse una posizione esplicitamente critica nei riguardi del capitalismo. Entrambi i messaggi erano destinati ad influenzare notevolmente la “seconda generazione” dei cattolici della quale facevano parte Paronetto, Saraceno e Vanoni. Per il radiomessaggio del 1° giugno 1941, cfr., “Acta Apostolicae Sedis”, a. XXXIII, s. II, vol. VIII, n. 6, del 23 giugno 1941, pp. 195-205; per quello del 24 dicembre 1942, cfr., “Acta Apostolicae Sedis”, a. XXXV, s. II, vol. X, n. 1, del 26 gennaio 1943, pp. 9-24. Va, infine, ricordato il radiomessaggio del Natale 1941 sull’ordine internazionale, cfr., “Acta Apostolicae Sedis”, a. XXXIV, s. II, vol. IX, n. 1 del 20 gennaio 1942, pp. 10-21.
18 Fu attraverso l’influenza culturale e carismatica di Paronetto che Vanoni e Saraceno entrarono in contatto con il “personalismo” di Jacques Maritain. Il filosofo intendeva la nozione di bene comune come un «fenomeno di reazione contro due opposti errori», la dittatura e l’anarchia, ai quali contrapponeva «una filosofia sociale centrata sulla dignità della persona umana». Cfr. J. Maritain, La persona e il bene comune, Brescia, Morcelliana, 1948, pp. 5-6.
19 A. Ferrari, La cultura riformatrice. Uomini, tecniche, filosofie di fronte allo sviluppo (1945-1968), cit., p. 21.
20 S. Paronetto, recensione a C. Giavazzi, La distribuzione della ricchezza, in “Studium”, a. XXIX, n. 5, maggio 1933, p. 314.
21 Asiri, Acs, Archivio II, Pratiche degli Uffici (Numerazione Nera), Serie “Relazioni e notizie sull’Iri dal 1933 al 1954”, b. 25, Il problema della socializzazione e l’Iri, di Sergio Paronetto, febbraio 1945, [0000002465].
22 Pasquale Saraceno, infatti, già compagno di classe di Ezio Vanoni, ne sposò la sorella, Giuseppina che, a sua volta, era legata, pur se da vincoli di parentela di secondaria importanza, a Sergio Paronetto. Cfr. M.L. Paronetto Valier, Sergio Paronetto. Libertà d’iniziativa e giustizia sociale, Roma, Edizioni Studium, 1991, pp. 28-29.
23 Icas – Istituto Cattolico di Attività Sociali, Per la Comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale, a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, Roma, Studium, 1945.
24 Intervento di Saraceno ad un convegno sul codice di Camaldoli, promosso dai gruppi parlamentari della Dc e svoltosi ad Arezzo, il 12 ed il 13 marzo 1982 in Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Il Codice di Camaldoli.
25 La prima “Settimana di cultura religiosa” si tenne nel 1936, tra il 29 agosto ed il 6 settembre. Cfr. AA.VV., Il movimento laureati di A.C. Appunti per una storia, Roma, Editrice Studium, 1960, pp. 47 e ss.
26 M.L. Paronetto Valier, La redazione del Codice di Camaldoli, in “Civitas”, a. XXXV, n. 4, agosto 1984, p. 9.
27 Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Il Codice di Camaldoli.
28 Ibidem.
29 G. Spini, Intervista a Pasquale Saraceno, in “Corriere della Valtellina” del 24 e 31 maggio 1991, anche in “Rivista economica del Mezzogiorno”, a. V, n. 3, luglio-settembre 1991, pp. 459-473.
Pillola n.3 - DALLA VALTELLINA A CAMALDOLI: SARACENO, VANONI E PARONETTO E LA RICERCA DELLA TERZA VIA CATTOLICA IN ECONOMIA
Paronetto e Saraceno, entrambi di Morbegno, si erano conosciuti a Roma dove il primo si era iscritto, nel 1928, alla Facoltà di Scienze Politiche per laurearsi, cinque anni dopo, nel 1933, anno nel quale il secondo fu assunto da Donato Menichella quale direttore della sezione ispettorato dell’Iri. Nell’agosto dello stesso anno, Vanoni, anch’egli di Morbegno dove era stato compagno di classe di Saraceno, si era «trasferito da Milano a Roma per assumere la carica di Commissario in una delle Corporazioni».1 I tre valtellinesi si trovarono quindi a lavorare insieme alla redazione dei capitoli economici del Codice, più che seguendo le indicazioni emerse dalla lettura dei 76 enunciati, operando una sintesi delle posizioni assunte singolarmente negli articoli scritti nel corso della loro collaborazione alla rivista “Studium” – dal 1932 organo ufficiale del Movimento Laureati Cattolici – con i quali avevano anticipato molti dei temi poi dibattuti in sede costituente. Il lavoro di redazione del Codice di Camaldoli, testo questo «immaginato dagli autori come provvisorio date le circostanze veramente straordinarie in cui era nato»,2 aveva finito per riunire quello che è stato definito il «primo nucleo di esperti economici del neonato partito cristiano»3 data la rilevanza che i suoi contenuti ebbero nell’elaborazione del programma del partito due anni dopo. Confrontando, infatti, come è stato fatto,4 le enunciazioni di carattere economico del Codice con le formulazioni delle Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana ed alcuni indirizzi di politica economica assunti in seguito dal partito democristiano, risultano evidenti molte assonanze, accertate inoltre, come ricordato da Saraceno, dal fatto che in quei giorni «Vanoni alternava riunioni in casa Paronetto con molto più frequenti riunioni di partito nelle quali si andava configurando il programma».5 La proposta economico-politica elaborata dai tre valtellinesi finì, infatti, per assumere «anche se non era questo il fine che si proponevano gli autori»6 i contorni di un documento politico, di un testo che divenne «utile alla elaborazione di un concreto pensiero politico: quello della Democrazia Cristiana».7
L’elemento portante del progetto di rinnovamento del sistema economico proposto dal Codice – e recepito nel programma politico del partito che avrebbe guidato il processo di ricostruzione – era rappresentato dalla ribadita fiducia nell’interventismo dello Stato ed in un rilancio della politica di programmazione che, insieme, avrebbero ridotto sensibilmente gli squilibri insiti nel modello capitalistico. Convinti sostenitori dell’interventismo statale furono i due principali redattori del documento, Paronetto e Saraceno, che, non a caso, al momento della redazione del testo potevano vantare un’esperienza lavorativa, ormai decennale, presso l’Iri. Paronetto, infatti, era stato assunto, appena laureatosi, su segnalazione dello stesso Saraceno, nel 1934, passando rapidamente «dalle iniziative che si prendevano nell’ambiente che direttamente o indirettamente facevano capo a Studium, alle operazioni alle quali Egli era chiamato a dare il suo contributo nel mondo dell’Iri»8 tra le quali vanno ricordate, la riorganizzazione del settore siderurgico e, soprattutto, la redazione della legge bancaria del 1936. Saraceno – rimasto all’Iri, ricoprendo diverse cariche, fino alla fine degli anni Ottanta – pur condividendo con Paronetto molti dei modi e dei compiti che avrebbero caratterizzato il ruolo dell’impresa pubblica all’interno dell’esperienza italiana, rispetto al direttore dell’Ufficio Studi di Via Veneto, si distingueva per minor idealismo e per una maggiore inclinazione ad affrontare i problemi tecnico-giuridici «con un’ottica soprattutto economica, lasciando spesso un ruolo più marginale all’argomentazione di natura morale e cristiana».9
Entrambi, però, avevano avuto, dall’esperienza lavorativa svolta presso l’Iri, la possibilità di misurarsi con problemi di ordine pratico e di vivere, nei fatti prima che nelle elaborazioni teoriche, il complesso e non sempre felice rapporto tra cattolicesimo e capitalismo che aveva spinto, ad esempio, molti cattolici della “seconda generazione” ad accettare l’esperimento corporativo del regime come una «sorta di compromesso in un momento di incertezze teoriche e di contrasti pratici».10 Paronetto confermò questa istintiva resistenza cattolica alla modernità condannando nei suoi scritti sia il socialismo sia il New Deal, inaugurato da Franklin Delano Roosevelt, sia proponendo una personale concezione dell’autarchia fascista.11 Furono, però, proprio gli anni trascorsi insieme a Saraceno all’Iri, durante i quali entrò a far parte di «un’élite di tecnici preparati a cui risultava familiare ogni singolo risvolto del sistema finanziario ed industriale del paese»12 che lo resero insensibile al fascino del corporativismo spingendolo, piuttosto che ad accettare il compromesso, a proporre un modello di economia sociale di mercato frutto di una consapevole volontà di misurare la tradizionale dottrina cattolica coi profondi mutamenti della realtà sociale e politica.
Come, infatti, ricorderà, nel 1982, Saraceno: «A Paronetto e a me il lavoro svolto presso l’Iri, inserendoci profondamente in svariati ambienti della produzione industriale e della finanza, facilitava molto la percezione dei reali sistemi di rapporti che si stavano formando».13 Allo stesso tempo, il far parte della dirigenza dell’Iri contribuì notevolmente a far sviluppare l’idea che, compito dello Stato non fosse quello di sostituire il mercato, ma intervenire in esso per modificarne gli squilibri e le imperfezioni, come descritto dall’art. 88 del Codice di Camaldoli. In altre parole, si era voluta rifiutare la ricerca di una forma alternativa al mercato come il corporativismo per elaborarne una ad esso compatibile, il principio di sussidiarietà che avrebbe fatto del sistema italiano un modello di economia mista.14
Vanoni, a differenza di Saraceno e Paronetto, non aveva avuto, né ebbe mai, degli incarichi presso l’Iri ma ciò non gli impedì di riconoscere l’importanza dell’Ente creato dal fascismo e, soprattutto, di giudicare positivamente il peso crescente dello Stato nell’economia moderna a patto, però, che questo non giustificasse interventi di natura esclusivamente assistenziale e fosse, altresì, costantemente orientato al perseguimento di fini quali la lotta all’inflazione, la limitazione delle disuguaglianze economiche e la tutela del risparmio.
1 Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Il Codice di Camaldoli.
2 Lettera di Pasquale Saraceno a Gerardo Bianco del 7 marzo 1982, in Archivio Storico dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, Carte Saraceno, Corrispondenza, b. 2.
3 B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista (1948-1958), Milano, Edizioni di Comunità, 1984, p. 147.
4 G. Campanini, Fede e politica, 1943-1951. La vicenda ideologica della sinistra d.c., Brescia, Morcelliana, 1976, p. 47 e P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 73.
5 Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Il Codice di Camaldoli.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Intervento di Saraceno pronunciato a Roma, il 20 marzo 1985, presso la Rettoria di S. Ivo, in occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa di Sergio Paronetto in Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Sergio Paronetto.
9 M. Cavazza Rossi, Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno: un incontro (1936-1945), in “Economia Pubblica”, a. XXIII, n. 4-5, aprile-maggio 1993, p. 165.
10 R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna, Il Mulino, 1979, p. 478.
11 Cfr. S. Paronetto, Cattolicismo e socialismo in “Azione Fucina” del 21 maggio 1933; Id., Roosevelt e il Demiurgo, in “Azione Fucina” del 17 dicembre 1933; Id., La ragione contro l’autarchia? in “Studium” a. XXXIII, n. 10, ottobre 1937, p. 577, nel quale l’autore considera il problema dell’autarchia economica come un «aspetto del più vasto problema dei rapporti tra Stato ed economia».
12 G. La Bella, L’Iri nel dopoguerra, Roma, Edizioni Studium, 1983, p. 37.
13 Acs, Archivio Pasquale Saraceno, Serie Scritti e discorsi, f. Il Codice di Camaldoli.
14 Cfr. S. Zamagni, I cattolici del dopoguerra e l’economia sociale di mercato, in “Nuova Fase”, a. II, n. 4, giugno 1995, pp. 83-91.
Pillola n.4 - GIUSTIZIA SOCIALE E "TERZA VIA" NEL SECONDO DOPOGUERRA. LA LEZIONE "DIMENTICATA" DI EZIO VANONI
Per quanto riguarda il problema dell’Iri, va ricordata la posizione assunta da Vanoni che, in un discorso al Senato, intervenendo nel dibattito in corso, affermò di considerare l’Ente non come una pesante eredità del passato, ma «uno dei massimi strumenti di quella politica di progresso economico attraverso la quale il Governo intende promuovere decisamente occupazione e reddito, attenuando, nello stesso tempo, i divari che oggi esistono tra i diversi ceti e le diverse regioni del Paese».1
Il contributo più rilevante di Vanoni, sul piano teorico, fu il concetto di giustizia sociale, ossia la ricerca della «massima occupazione stabile remunerata con un giusto salario»,2 concezione, questa, frutto del tentativo del futuro Ministro delle Finanze di operare una sintesi tra gli insegnamenti sociali della Chiesa e gli indirizzi politico-economici cui orientare l’azione di governo.
Il concetto di giustizia sociale, infatti, elaborato per la prima volta da Vanoni sulle colonne di “Studium”3 e poi reso sistematico, due anni più tardi, nel suo scritto La nostra via,4 era stato per i tre valtellinesi il punto di riferimento principale nella redazione del Codice, pur non comparendo in nessuno dei 76 enunciati di Camaldoli.
Vanoni conobbe Paronetto quando, nel 1933, ottenuto l’incarico triennale di succedere ad Antonio De Viti De Marco presso la cattedra di Scienza delle Finanze dell’allora Istituto di Scienze economiche e Commerciali di Roma si stabilì temporaneamente a casa di Saraceno che, nel 1928, ne aveva sposato la sorella. L’incontro con l’allora redattore capo dell’Illustrazione Vaticana, oltre ad introdurlo negli ambienti romani della Fuci, contribuì notevolmente ad avvicinarlo, anche ideologicamente, alla futura classe dirigente democristiana: proprio tramite Paronetto – che nel 1933 era già un membro attivo della Fuci e del Movimento Laureati –, Vanoni conobbe a Roma, in quegli anni, Guido Gonella, Giulio Andreotti e, soprattutto, Alcide De Gasperi del quale sarebbe poi divenuto stretto collaboratore e più volte ministro nei governi presieduti dallo statista di Pieve Tesino.
Paronetto, quindi, dopo aver contribuito all’inserimento nel gruppo cattolico romano di Saraceno, fece lo stesso con Vanoni. Ma se la sua azione fu determinante per la «maturazione spirituale e intellettuale»5 del primo – il quale già a Milano, attraverso la moglie Giuseppina Vanoni e la frequentazione di don Carlo Colombo, si era avvicinato al cattolicesimo – ancora di più lo fu per il secondo, estraneo a quegli ambienti e con un percorso giovanile ben diverso dai suoi conterranei.
Dopo essersi, infatti, diplomato ad Ivrea, Paronetto trascorse a Roma gli anni della propria formazione universitaria, iniziando a frequentare, dopo nemmeno un anno dal suo trasferimento, il circolo locale della Fuci al quale si iscrisse il 14 marzo del 1929.6 Saraceno, invece, conseguì la laurea in Economia e Commercio all’Università Commerciale “Luigi Bocconi” dove, pur stabilendo alcuni contatti con gli esponenti dell’ambiente socialista milanese – primo tra tutti quello con Claudio Treves7 –, preferì seguire anche in questo senso la lezione del suo maestro, il professor Gino Zappa che aveva manifestato, nel corso della sua carriera, un completo distacco verso la politica. Introdotto da Paronetto negli ambienti cattolici romani, infatti, Saraceno finì con frequentarli, ma come ricordato dal fratello Angelo, lo fece «più affascinato dagli uomini che dalle idee».8
Durante l’esperienza pavese, l’attivismo politico non ostacolò l’approfondimento scientifico anche perché le teorie di Griziotti, fautore di «una economia di mercato corretta da interventi statali, al fine di generare sviluppo economico e sociale»,9 si conciliavano bene con il socialismo riformista che aveva affascinato Vanoni e che suggeriva una concezione dell’azione economica e fiscale come mezzo per raggiungere il fine della giustizia sociale in ossequio a quella “terza via” che il cattolicesimo sociale aveva scoperto parallelamente all’imporsi del corporativismo “fascista”.
Quello che è stato definito il «periodo socialista di Pavia»10 può dunque essere considerato il frutto di una scelta consapevole – come testimonia l’adesione di Vanoni all’Asup piuttosto che al circolo locale della Fuci – e che «rappresenta un importante elemento evolutivo della sua personalità»11, tra l’altro, non contrastante, in termini di coerenza, con il suo futuro impegno politico poiché volto anch’esso al perseguimento di quegli ideali di giustizia sociale e progresso economico che avevano orientato il suo giovanile attivismo politico. Furono, nell’estate del 1925, l’esperienza del servizio militare12 e, nel 1933, l’incontro a Roma con Paronetto a far tornare Vanoni quella fede cristiana che, come ricordato dal suo amico e compagno di collegio, Piero Malcovati, «non aveva mai abbandonato».13
Questo elemento di novità spinse allora il futuro ministro delle Finanze a scegliere «il suo nuovo posto di battaglia»14 dal quale cercò di interpretare le esigenze dell’Italia del dopoguerra diventando, fin da subito, l’ascoltato consigliere economico di De Gasperi e imponendo, di fatto, all’attenzione del segretario del partito democristiano «quelle istanze sociali e quel pensiero economico che sin dall’età giovanile avevano ispirato»15 il suo precedente impegno politico ed i suoi studi accademici.
Gli anni pavesi di Vanoni rimangono ancora oggi la pagina più controversa della sua biografia, e le ricostruzioni dei motivi, che motivarono le sue scelte giovanili, variano dall’influenza ambientale all’entusiasmo giovanile, dalla crisi religiosa alla reazione ideologica verso il regime.
E’ spesso emersa la tendenza, come sottolineato nel 1992 da Guido Vigna, di ridurre l’adesione agli ideali socialisti «a un episodio privo di significato politico e da collocare in anni particolari, gli ultimi sussulti antifascisti, prima del grande buio della dittatura».16 Se si eccettua, infatti, la biografia di Mario Ferrari Aggradi, pubblicata nel 1956, anno della prematura scomparsa del ministro delle Finanze, quella voluta e controllata da Saraceno e dalla moglie di Vanoni, Felicita Dell’Oro17 sembra confermare le impressioni di Vigna.
La biografia del 1958, infatti, da un lato ripropone alcuni momenti del discorso di Malcovati nei quali si definisce la scelta di Vanoni come frutto di un «effimero atteggiamento giovanile»,18 e dall’altro risulta priva di alcuni passaggi presenti nella prima versione dattiloscritta sottoposta all’attenzione dei revisori nei quali, ad esempio, si sosteneva l’impossibilità di «giudicare avventata e gratuita quella parentesi socialista».19
Gli interventi correttivi di Saraceno, come risulta dall’analisi delle bozze,20 rari e riguardanti questioni di forma più che di sostanza nella maggior parte del testo, si concentrano proprio sul paragrafo in cui si ricostruiscono gli anni trascorsi da Vanoni all’Università di Pavia e sono tutti orientati a rendere, nella futura pubblicazione, il «periodo meno impegnativo»21 di quanto fosse stato già fatto in precedenza dal lavoro di Mario Ferrari Aggradi e durante la commemorazione dello statista di Piero Malcovati.
Totalmente esclusa dalla pubblicazione, poi, la ricerca delle motivazioni che spinsero Vanoni ad assumere la direzione della delegazione socialista nelle agitazioni verificatesi in seguito al delitto Matteotti che, nella prima versione della biografia erano state individuate in alcune convinzioni del futuro assistente di Griziotti, espressioni «della sua intima opzione per le aspirazioni delle classi popolari, del suo giudizio negativo sulle soluzioni tradizionali al problema economico».22
In tal senso, quella di Vanoni, viene proposta al lettore come la scelta di «un campo di lotta meno lontano dai suoi studi» e «una posizione netta […] verso il fascismo»,23 evitando di considerarla come «il risultato dell’influenza dell’ambiente universitario e culturale di Pavia»,24 forse nel timore di evidenziare un’esperienza troppo diversa rispetto all’importante ruolo politico che ebbe nelle file della Dc. Timore, questo, ingiustificato poiché come fondatore, dirigente e poi ministro del partito democristiano Vanoni perseguì le stesse istanze sociali che avevano ispirato la sua azione fin dall’età giovanile, che gli studi avevano, nel frattempo, maturato e che l’esperienza politica, negli anni della ricostruzione, avevano arricchito di un forte senso dello Stato.
Un atteggiamento, questo, che, nonostante la profonda diversità dei percorsi formativi, fu comune al trio di Morbegno e spinse, secondo la lezione di Menichella, i tre valtellinesi a perseguire ideali di uguaglianza e di giustizia. Essi orientarono sempre la loro azione non al servizio di un partito, ma «al senso dello Stato e del dovere verso lo Stato».25 Ne sono conferma ancora oggi gli articoli apparsi su Studium, i capitoli del Codice di Camaldoli redatti da Paronetto, Saraceno e Vanoni, gli obiettivi perseguiti dagli ultimi due – dopo la morte del primo – attraverso lo Schema Vanoni e la creazione della Svimez, tentativi, questi, volti tutti alla risoluzione dei problemi economici del Paese e che proprio per questo unirono nella loro realizzazione, come nelle critiche, uomini di schieramenti politici molto diversi tra loro.
1 Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, Resoconti delle discussioni, II Legislatura, vol. VI, (25 giugno-30 luglio 1954), seduta del 21 luglio 1954, p. 6544, Roma, Tipografia del Senato, 1954. Anche in E. Vanoni, Discorsi parlamentari, vol. II, a cura di A. Tramontana, Roma, Senato della Repubblica, 1978, p. 1159.
2 A. Magliulo, Ezio Vanoni. La giustizia fiscale nell’economia di mercato, Roma, Edizioni Studium, 1991, p. 59.
3 Ci si riferisce allo scritto La finanza e la giustizia sociale, in “Studium”, a. XXXIX, n. 11-12, novembre-dicembre 1943, pp. 358-364 nel quale Vanoni, assumendo come punto di partenza le teorie di Benvenuto Griziotti, professore col quale si laureò a Pavia nel 1925, sostiene che alla scienza spetti solo il compito di indicare alla politica – che ne fisserà i precetti normativi – i mezzi con i quali perseguire e raggiungere la giustizia sociale.
4 Cfr., E. Vanoni, La nostra via. Criteri politici dell’organizzazione economica, Roma, SELI, 1946.
5 M. Cavazza Rossi, P.L. Porta e C. Spagnolo (a cura di), Biografie parallele. Pasquale Saraceno visto da Angelo Saraceno, in “Economia Pubblica”, a. XXIV, n. 3, marzo 1994, p. 91.
6 M.L. Paronetto Valier, Sergio Paronetto. Libertà d’iniziativa e giustizia sociale, Roma, Edizioni Studium, 1991, p. 14.
7 G. Vigna, Pasquale Saraceno. L’uomo che voleva unificare l’Italia, Milano, Rusconi, 1997, p. 31.
8 M. Cavazza Rossi, P.L. Porta e C. Spagnolo (a cura di), Biografie parallele. Pasquale Saraceno visto da Angelo Saraceno cit., p. 91.
9 F. Forte, Ezio Vanoni. L’economia pubblica come scienza dell’amore della patria, [Sondrio], Banca Popolare di Sondrio, 2003, p. 14.
10 G. Spini, P. Malcovati, P. Saraceno, Ezio Vanoni, cit., p. 26.
11 M. Ferrari Aggradi, Ezio Vanoni. Vita - Pensiero - Azione, Roma, Edizioni 5 Lune, 1956, p. 42.
12 Come ricordato da Marina Vanoni Sica, è proprio a partire dall’estate del 1925 che Vanoni riprenderà ad usare, nel carteggio con la madre Luigia Samaden, parole come “fede” ed espressioni come “bisogna avere fiducia”. Cfr., S. Misiani-A. Patanè-G. Sacco, Intervista: le figlie di Ezio Vanoni…, cit., p. 4.
13 P. Malcovati, Ricordo di Ezio Vanoni Ghislierano, Discorso pronunciato al Convegno ex alunni del Collegio Ghislieri a Pavia il 6 maggio 1956 cit. in M. Ferrari Aggradi, Ezio Vanoni. Vita - Pensiero - Azione, cit., p. 137.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 G. Vigna, Ezio Vanoni. Il sogno della giustizia fiscale, Milano, Rusconi, 1992, p. 32.
17 Testo dattiloscritto, con correzioni manoscritte di Saraceno, della biografia di Ezio Vanoni edita nel 1958 dalla Ilte e già citata nel corso della trattazione, in Asiri, Fondazione Iri, Archivio II, Pratiche degli Uffici (Numerazione Nera), Serie “Ufficio Studi”, Biografia di Ezio Vanoni, b. SD/1314, f. 1, [0000035564].
18 G. Spini, P. Malcovati, P. Saraceno, Ezio Vanoni, cit., p. 28.
19 Asiri, Fondazione Iri, Archivio II, Pratiche degli Uffici (Numerazione Nera), Serie “Ufficio Studi”, Biografia di Ezio Vanoni, b. SD/1314, f. 1, [00000035564].
20 Ibidem.
21 Ibidem.
22 Ibidem.
23 G. Spini, P. Malcovati, P. Saraceno, Ezio Vanoni, cit., pp. 28-29.
24 Asiri, Fondazione Iri, Archivio II, Pratiche degli Uffici (Numerazione Nera), Serie “Ufficio Studi”, Biografia di Ezio Vanoni, b. SD/1314, f. 1, [00000035564].
25 F. Forte, L’economia pubblica come scienza dell’amore della patria, cit., p. 37.
Pillola n.5 - DALLA TEORIA ALLA PRATICA: IL CARLISMO COME ESEMPIO DI "TERZA VIA"
In un’era come l’attuale in cui la cult ura subisce una sempre più evidente perdita di senso storico, non sorprende la diffusa superficialità che permea gran parte della letteratura, anche di natura scientifica. Questa tendenza semplifica e etichetta temi storico-filosofici con connotazioni politicamente corrette e omologanti, in un contesto segnato dal politically correct e da altre innumerevoli influenze che liquidano tali aspetti con etichette e stigmi.
Questo fenomeno non è nuovo, in quanto gli aspetti politici ed economici vincitori della Seconda guerra mondiale cercano nuovi riferimenti culturali, parallelamente eliminando le basi del mondo da sostituire.
Nel contesto di una filosofia applicata al diritto, assumono particolare importanza gli studi di José Miguel Gambra, che, nonostante il contesto sfavorevole della “società aperta”, hanno il merito di offrire una riflessione sulla tradizione in un contesto svuotato dei comuni elementi fondativi materiali e soprattutto spirituali.
Il concetto di tradizione, spesso abusato e trasceso, richiede un’analisi che lo consideri latinamente come una declinazione di “traditio”, indicante la trasmissione del testimone da una generazione all’altra in modo cumulativo ma critico, selezionando il meglio del passato e apportando miglioramenti. Questo contrasta con chi lo concepisce come una cultura trasmessa in modo assoluto e semplice.
All’interno di questo contesto, il Carlismo spagnolo, con esponenti come Vàzquez de Mella, Aparisi y Guijarro, Rafael Gambra Ciudad ed Elias de Tejada, ha costruito un sistema di ordine dottrinale per un’antropologia culturale cattolica, contrapponendosi agli approcci marxisti e liberalisti di matrice anglosassone.
Il “tradizionalismo”, visto come qualcosa di dinamico, è assunto e interiorizzato da coloro che, una volta spezzata la tradizione, cercano di recuperare i principi e i valori. Da ciò deriva una Terza via, minoritaria ma non in senso qualitativo, che cerca di dare a ogni aspetto di una realtà sociale complessa il suo giusto posto. Questa Terza via sostiene una monarchia temperata, non assoluta, e si configura come una fusione della sapienza cristiana con un’esperienza naturale millenaria.
Emerge con forza la stretta connessione tra la tradizione correttamente intesa, la riscoperta delle sue implicazioni con la sovranità e il diritto precedente l’età assolutistica. Figure come Elias de Tejada hanno denunciato i limiti della "mentalità del nostro tempo", che ha ridotto la comprensione dell’universale e del patrio, focalizzandosi solo sul nazionale come realtà politica compiuta.
Oltre alle speculazioni che semplificano la sovranità in un politico sovranista, restano centrali gli apporti della scuola spagnola, che, a partire da Francisco Elìas de Tejada fino a José Miguel Gambra, costituiscono un antidoto alla deriva progressista e standardizzante di storie, ordinamenti giuridici, patrimoni culturali, differenze e identità.
In questo contesto, l’Open Society, teorizzata e impostata nell’ordinamento mondialista del villaggio globale del Terzo millennio, diventa essenziale per tentare di rilanciare un riassetto normativo e giuridico delle specificità dei popoli. La rivendicazione delle specificità culturali di ogni singolo popolo emerge come una delle questioni più rivoluzionarie nell’attualità politica mondiale.
In questo sforzo, il Carlismo e il suo approccio conservatore e cattolico-tradizionalista si presentano come l’antitesi perfetta alla rivoluzione, ponendo e sollevando la questione della legittimità dinastica di Carlo Maria di Borbone e d’Austria-Este.
Il nucleo della disputa, pur non avendo un carattere propriamente politico, si radica profondamente nella legittimità istituzionale della contesa. La Pragmatica Sanzione del 1830, con la designazione di Isabella II come erede al trono, ha introdotto per la prima volta la successione femminile in un contesto istituzionale in cui insisteva la Ley sàlica, che privilegiava la successione maschile. Questo ha generato una divisione tra i sostenitori della Pragmatica Sanzione e i "legittimisti" ancorati alla tradizione semi-salica, dando vita a un confronto serrato e a due guerre civili tra visioni del mondo opposte: quella liberale e quella tradizionale incarnata dai Carlisti.
Infine, l’opposizione del Carlismo alla Costituzione di matrice francese e il suo impegno per una monarchia organica, profondamente cattolica e rispettosa dei diritti locali, si sono posti come una barriera contro una conquista ideologico-territoriale che avrebbe portato a una deriva istituzionale liberale-liberista e culturale.
Pillola n.6 - "DIOS, PATRIA, FUEROS": LA SORPRENDENTE ATTUALITA' DELL'IMPIANTO "CONTRORIVOLUZIONARIO CARLISTA
Il Carlismo dimostrerà la sua capacità non solo di contrapporre una propria visione, ma anche di adattarsi in modo efficace ai cambiamenti dei tempi, continuando a sfidare le novità del XIX secolo. Questo dinamismo, tuttavia, non implica la perdita della premessa fondamentale della proposta “controrivoluzionaria” del legittimismo tradizionale carlista.
Nel contesto dell’istituto monarchico, considerato la migliore forma di governo secondo Aristotele e Tommaso d’Aquino, si rileva un gene organico anziché assoluto. I regnanti riconoscevano i corpi intermedi, successivamente diventati “sociali”, come mediatori del potere sovrano, confermato dal localismo vincolante menzionato da Rafael Gambra. Questo localismo era parte integrante di un assetto gerarchico intriso di senso cristiano, che creava legami profondi tra l’individuo e il suo ambiente, costruendo reti di affetti e sentimenti comunitari.
Il rapporto tra il sovrano e i suoi popoli, anziché il suo popolo, rappresentava una distinzione semantica significativa. Francisco Elìas de Tejada ha utilizzato questa distinzione come modus distintivo, parlando di Spagne anziché di Spagna, e suggerendo una distinzione simile per l’Italia.
Il legame tra il cattolicesimo e l’unità dei popoli spagnoli e italiani conferiva sostanza a regioni che, senza di esso, sarebbero rimaste mere espressioni geografiche. La fedeltà alla corona legittimata dal sacro vincolo tra trono e altare permetteva al re di essere un “padre di famiglia” capace di affidare i figli a buoni maestri e correggerli se necessario.
Questo approccio non escludeva nemmeno la correzione rispetto all’origine dell’investitura stessa. José Miguel Gambra riporta le parole di Carlo VII, che considerava l’opinione del Pontefice in materia di politica come quella di un sovrano esperto ma non infallibile, mentre in materia di fede o morale si sottometteva completamente.
La questione dell’unione dei due poteri, trono e altare, in Iberia non era intesa come fusione ma come armonia, evitando sia il cesaropapismo che la gerocrazia o il clericalismo.
La distinzione tra le Spagne e la Spagna si rivelava significativa, fungendo da argine alla liquidazione delle tradizioni in un relativismo religioso e istituzionale. Questo si opponeva al terribile sviluppo dei secoli successivi, che portò alla secolarizzazione della "società" europea e alla sostituzione di un vertice “europeo” in grado di soppiantare l’unità strutturale della Cristianità.
Il motto carlista “Dios, Patria, Fueros” illustra l’autonomia regionale in senso legittimista e tradizionale, indicando che i fueros sono le antiche libertà legittime e i diritti consuetudinari che spettano ai popoli iberici, riuniti nell’unica nazione spagnola.
Il Carlismo emerge come un ideario e non un’ideologia, originato dalla razionalità aristotelica e contrapponendosi al razionalismo illuminista. Quest’ultimo, non a caso, ha dato origine alla secolarizzazione della "società" europea, seguendo la linea anticattolica iniziata con la riforma luterana e riproposta nella Rivoluzione Francese.
Pillola n.7 - IL CARLISMO ANTITESI "PERFETTA" DELLA RIVOLUZIONE
Sono pochi, ma essenziali e distintivi, gli elementi caratteristici della "controrivoluzione" carlista, definita dal padre Raffaele Ballerini come l’"antitesi perfetta della Rivoluzione". Questi motivi guidarono i "carlisti" a sostenere Carlo Maria di Borbone anziché l’ascesa isabellina nella Spagna dell’epoca.
Uno di questi aspetti fondamentali è la decisione del Carlismo, che include solo il tradizionalismo ispanico, di rifiutare ogni compromesso per l’intera durata del conflitto. Questa scelta comportava l’autoesclusione dallo spazio politico, una critica radicale all’ordine costituito e l’assunzione di una forte identità politica, arricchendo il movimento di una componente messianica.
Il Carlismo si definisce come una comunità ideale, in cui il Re è servitore della dottrina, differenziandosi nettamente dai partiti politici convenzionali in Spagna. Questo approccio “purista” rappresenta una sfida non banale in un’epoca in cui la secolarizzazione e le contaminazioni stavano iniziando a plasmare la politica e le istituzioni.
Il Carlismo emerge come un’alternativa decisa, difendendo la sua purezza dalle influenze della visione liberale di Isabella. Non è solo una questione di preferire un erede rispetto a un altro, ma una divergenza irreconciliabile basata su due visioni del concetto di tradizione. I carlisti trovavano inaccettabile la soluzione che avrebbe sacrificato la tradizione in favore di una monarchia accentratrice con inclinazioni costituzionali e indifferentiste nella religione.
Il Carlismo rappresenta una visione tradizionale, ma intesa come una monarchia organica rispettosa dei fueros locali e della religione cattolica. Questo progetto è unico, intrinsecamente puro e mira a mantenere la simmetria tra ordine e storia in un’epoca di cambiamenti politici e storici inevitabili.
La visione carlista, inoltre, ha il potenziale di superare i confini spagnoli e essere esportata, con i necessari adattamenti, anche al di fuori della penisola iberica, come dimostra il caso napolitano. In altre regioni del Mezzogiorno, il Carlismo ha ottenuto consensi tra un’élite di “sconfitti del Risorgimento”, che si sono persino recati nella penisola iberica per difendere i principi legittimisti.
Questa diversità è rilevante anche nella prospettiva più ampia della visione filosofica del diritto, considerato come il risultato di un vincolo superiore volto a preservare le identità dalle tendenze omologatrici dei governanti sulla popolazione, causate dalla “rivoluzione” liberale. Allo stesso tempo, il diritto è regolato attraverso i testi costituzionali che si diffusero in Europa nel prossimo futuro.
Pillola n.8 - L'APPROCCIO LEGITTIMISTA TRA PASSATO E PRESENTE
Alla radice della fase più prospera per la città governata dai “viceré”, non si trattò semplicemente di una fusione acritica a schemi di governance, come oggi si potrebbe definire in un’epoca di sudditanza anglosassone, risultante da una moda semantica priva di critica, simbolo di deviazione culturale e confusione linguistica. Le istituzioni del Regno partenopeo, al contrario, si sono sviluppate in modo spontaneo, parallelamente a quelle iberiche, durante i due secoli di unione personale delle Corone.
Questo non poteva essere altrimenti, poiché il Carlismo rappresentava l’unico movimento politico-culturale con una visione del mondo “antagonista” in senso contro-rivoluzionario, destinato a influenzare anche il XX secolo. Questa influenza era fondata su basi giuridico-istituzionali chiare e incontestabili, soprattutto la presenza tangibile di un Re legittimo e la chiara concezione della legittimità di esercizio, che sottoponeva il Re al diritto naturale, accanto a quello di origine.
La comprensione del motto carlista, “Dios, Patria, Fueros y Rey”, deve avvenire con chiarezza e distinzione, evitando interpretazioni generiche o relativiste. In particolare, “Dios” si riferisce a Dio, non semplicemente alla “religione”, ma a quella cattolica. “Patria” indica la Terra dei Padri, non una versione edulcorata della Nazione astratta o dello Stato burocratico.
Il motto carlista include anche i “Diritti tradizionali”, intendendo libertà concrete e non un’astratta Libertà con la maiuscola, e infine “Re”, chiaramente un Re legittimo e non un usurpatore o un indegno. Questa sottile ma significativa differenza concettuale rispetto alla visione liberale, grazie al suo purismo, ha contribuito a preservare la fiamma di una destra politica attenta al regionalismo e all’identità locale almeno fino al 1939.
Ciò è evidenziato dalla parabola che si estende dal XIX secolo al 1936, un periodo denso di cambiamenti e sviluppi, durante il quale alcuni rimpiangeranno l’occasione persa del 4 maggio 1814. Questo rimpianto riguarda l’accettazione da parte di Ferdinando VII del Manifiesto de los Persas, che ha rinverdito la ruggine assolutista e ha trascinato gli spagnoli in una europeizzazione contraddittoria, oscillando tra la conservazione dell’assolutismo e la vittoria finale dell’esotismo liberale.
Nonostante ciò, i carlisti, secondo Elías de Tejada, rimarranno tra le voci che denunceranno coraggiosamente questa grande occasione mancata, contribuendo a contrastare la negazione della storia che avrebbe caratterizzato il futuro, segnando il rifiuto del passato e della tradizione a favore delle utopie progressiste. Oltre al Carlismo, vengono ricordati altri pensatori e studiosi che hanno cercato di preservare la tradizione e l’identità culturale di fronte ai cambiamenti e alle sfide del loro tempo.
Pillola n.9 - L'UNICITA' DELL'APPROCCIO CARLISTA NEL TERZO MILLENIO
Il Carlismo introduce principi originali e puri che formano la base di una concezione legalista del potere e della fede, delineando la concreta intersezione tra questi due ambiti nella realtà. Un tale mix, se avesse seguito la via carlista, non avrebbe certo condotto alla centralizzazione del potere pubblico o alla burocratizzazione della società, che ha generato diverse forme decadenti di “localismo politico”.
Questo “localismo politico”, va sottolineato, differisce notevolmente dall’interpretazione di Rafael Gambra, essendo privo del carattere gerarchico intriso di senso cristiano. Invece, si è evoluto in un patronage cortigianesco e castellano, risultato di un processo che ha contribuito alle forme decadenti di “localismo politico”, come evidenziato nel caso napolitano durante il decennio murattiano.
Questo periodo è cruciale poiché rappresenta le radici di una crisi ancora irrisolta e manifesta nelle sue forme ancor più degeneranti nel Terzo millennio. Un’analisi prospettica carlista, adottata da Don Sisto Enrico di Borbone all’inizio del Duemila, offre uno sguardo chiaro sulla fotografia del nuovo villaggio globale di Marshall McLuhan e del nuovo ordine mondiale denunciato da Monsignor Viganò.
Il testo evidenzia che la rinuncia alla confessionalità cattolica dello Stato ha accelerato la secolarizzazione, portando a una miscela letale tra capitalismo liberale, statalismo socialista e indifferentismo morale, noto come “globalizzazione”. Questo processo minaccia la dissoluzione delle patrie, in particolare di quella spagnola, intrappolata tra un falso regionalismo ed europeismo.
L’analisi carlista, profetica e pungente, rivela la sua rilevanza come strumento di comprensione delle degenerative evoluzioni del mondo successivo. Il Carlismo, quindi, rappresenta un approccio unico e imprescindibile per la comprensione della controrivoluzione, un punto di riferimento obbligato per l’analisi della realtà politica, religiosa, spirituale e identitaria. Questo approccio, ancora oggi, si rivela indispensabile per comprendere gli eventi attuali e le ragioni alla base di essi.
Il Carlismo non ha subito l’effetto di una negativa asimmetria culturale, nonostante la carenza editoriale in Italia, che per lungo tempo ha limitato le opportunità di approfondimento su questo argomento. Solo con le pubblicazioni della casa editrice Solfanelli, l’interesse per il Carlismo ha trovato spazio e si è distinto dai lavori incapaci di offrire una visione completa della realtà del Tradizionalismo ispanico, cioè del Carlismo.
Pillola n.10 - IL CARLISMO NELL'ALVEO DELLA "TERZA" VIA CHE RIFLETTE LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
La parola chiave per la soluzione teorica ed economica proposta dal Carlismo era la “desamortizaciòn”. Tale concetto indicava una delle cause principali dell’impoverimento dello Stato, affermando che nessun governo avrebbe potuto realisticamente abbassare le tasse al livello pre-1833 di Ferdinando VII. Gli errori o l’assenza di investimenti, la corruzione governativa, la divisione degli introiti dalle vendite dei beni ecclesiastici, e la mancanza di una politica volta al bene comune erano identificati come la radice del problema.
Francisco Elías de Tejada, nel 1955, sottolineò l’aspetto “economico” del Carlismo nel suo riassunto del programma carlista, evidenziando l’importanza dell’economia sociale come uno degli elementi chiave dei principi sostenuti dai sostenitori di Carlo V e del puro legittimismo. Questo aspetto, al nono punto del programma, fu considerato la sintesi completa del programma carlista, presentato in una riedizione di un feuilleton borbonico.
Questo punto nono rifletteva chiaramente la convinzione carlista che solo consentendo lo sviluppo della libera iniziativa individuale, al riparo dalle interferenze statali, si avrebbe una vita sociale non dipendente da organismi statali o soggetta alla vittoria del più forte, come nel liberalismo economico.
Il pensiero carlista, quindi, si discostava notevolmente da altre correnti politiche del XIX e XX secolo, nonostante le etichette errate attribuitegli dalla malevola ignoranza di storici e giornalisti. Il Carlismo non si identificava con l’assolutismo, il fascismo, il separatismo o il clericalismo. Al contrario, tutte queste correnti avevano attinto dal corpo dottrinale carlista, basato essenzialmente sulla maturità della Cristianità.
La weltanschauung del Carlismo, nonostante possa sembrare in alcuni casi assimilata ad altre, emerge come distintiva in un’analisi più approfondita, soprattutto dal punto di vista dottrinario. Il Carlismo ha elaborato una chiara visione del mondo nel corso dei decenni, trasmessa attraverso documenti come gli Acta de Loredán (1897) e il volume ¿Que es el Carlismo? (1971).
L’unico accostamento lecito che il Carlismo ammette è quello relativo alla sua "Terza via", un concetto che si propone come soluzione per uscire dalla crisi, in particolare superando il binomio marxismo-liberismo.
Questa “Terza via” riflette sostanzialmente la proposta della dottrina sociale della Chiesa, con il Carlismo che si distingue per aver applicato concretamente questi principi durante le guerre carliste del XIX secolo e averli inseriti nei punti fermi della politica economica nel suo ideario del 1971.
ELENA BIANCHINI BRAGLIA
Nata a Modena nel 1972, laureata in Scienze dell'Educazione presso l'Università di Bologna e in Filosofia presso l'Università di Parma, da anni si occupa di attività editoriali e culturali.
Dal 2000 collabora con l'Associazione culturale Terra e Identità, come direttrice editoriale dell'omonima rivista, che diffonde temi di storia e cultura locale con particolare riferimento all'antico Ducato Estense, operando pertanto sulle provincie di Modena, Reggio, Ferrara, Massa e Carrara.
Per Terra e Identità ha pubblicato diversi libri, soprattutto biografie femminili del periodo del Ducato Estense (Adelgonda di Baviera , Maria Beatrice Vittoria di Savoia, Maria Beatrice d'Este, regina d'Inghilterra, Anna e lo Sfregiato).
La biografia di Donna Rachele è invece uscita per Mursia.
In occasione del centenario della prima guerra mondiale ha pubblicato un saggio critico sull'attentato di Sarajevo: Ferdinando e Sofia, la morte dell'Europa.
Partendo dalla storia del Ducato Estense è arrivata ad approfondire sempre più le dinamiche ottocentesche che ne hanno provocato la scomparsa. Si è così a lungo soffermata sulle ragioni, sul pensiero e sui personaggi del Risorgimento, sviluppandone, in un approccio di confronto fra gli Stati Preunitari e il nuovo Regno nato dall'unificazione, una visione critica. Su questi temi ha tenuto conferenze e partecipato a Convegni in tutta Italia, soprattutto nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell'Unità, e ancora oggi. Ha poi pubblicato vari saggi, sia in miscellanee che in volumi monografici (tra cui Le radici della vergogna, psicanalisi dell'Italia; Le origini della casta, il risorgimento del malaffare; In esilio con il Duca, la storia esemplare della Brigata Estense; La verità sugli uomini e le cose del Regno d'Italia, Rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour; L'ultimo Duca, Francesco V d'Austria Este) alcuni editi dal Centro Studi sul Risorgimento e sugli Stati preunitari di cui è presidente, altri dalle edizioni Il Cerchio e Tabula Fati.
Nell’ultimo volume, uscito quest’anno, Dagli Schützen la salvezza, un cuore nel cuore dell’Europa, propone di guardare all’esperienza tirolese come a un valido esempio per una riscoperta delle identità e delle tradizioni da opporre a un’Europa che si rivela sempre più meramente burocratica, fredda, omolagata e omologante. In questo senso, la singolare esperienza degli Schützen può valere per tutti i popoli italici ed europei.
Le "pillole" su Mazzini presentate su questo sito sono tratte dal suo libro Mazzini all'origine della dissoluzione. Spunti di riflessione con il senno di poi, Edizioni Terra e Identità, Modena 2022
PIllola n.1 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
Francesco IV d’Austria Este e la Restaurazione
È il 15 luglio del 1814 quando Francesco IV d’Austria-Este entra a Modena, capitale del Ducato Estense, dopo che il Congresso di Vienna - riportando i sovrani sui troni e ripristinando i confini degli antichi stati europei - sembra avere chiuso la parentesi rivoluzionaria e napoleonica. Casa d’Este ha governato quelle terre per secoli. Il duca Ercole III, allontanatosi e morto in esilio proprio a causa di Napoleone, ha lasciato una sola erede, Maria Beatrice Ricciarda: per dare continuità alla dinastia, suo padre Francesco III, ne ha combinato le nozze con l’arciduca d’Austria Ferdinando. Il primogenito di Maria Beatrice Ricciarda d’Este e Ferdinando d’Austria, Francesco, nato a Milano il 6 ottobre 1779, va dunque ad inaugurare la Casata degli Austria Este, che darà a Modena i suoi ultimi due duchi.
Il governo di Francesco IV si delinea fin dai primi mesi come orientato innanzitutto a ripristinare le condizioni antecedenti l’infelice esperienza napoleonica, con tutto il suo corredo di soppressioni di istituti religiosi e confisca di beni ecclesiastici.
«Rendere i modenesi felici come al tempo di Ercole III» è il suo obiettivo, e in effetti il suo governo ricalca per certi aspetti il riformismo illuminato dell’ultimo estense. Se ne distingue tuttavia per la forte impronta religiosa e lo spiccato paternalismo. Un paternalismo che verrà aspramente criticato dai suoi avversari politici e dalla successiva cultura liberale, ma che d’altra parte - assicurando ad ogni ceto di modenesi un relativo benessere - gli garantirà un vasto e solido consenso. Il suo lavoro rapido e deciso di riapertura di scuole, orfanotrofi, seminari, sarà interrotto solo per pochi giorni nell’aprile del 1815, dall’invasione di Gioacchino Murat, gelidamente accolto dal popolo e subito respinto: non c’è nulla da fare - ammette il pur liberale conte Luigi Vaccari, già ministro napoleonico, egli «non avrebbe qui trovato partigiani che in pochi viziosi o disperati».
Fra il popolo e il duca c’è un solido legame di fedeltà, e ciò non deve meravigliare: il governo estense su Modena affonda le radici nei secoli ed è segnato da una continuità difficilmente riscontrabile nella storia degli altri stati preunitari. Il dominio di Casa d’Este su Modena inizia nel 1289 e, salvo brevissime interruzioni, prosegue fino al 1859. Il Gregorovius, nella sua celebre biografia di Lucrezia Borgia, specifica che «la stirpe degli Este era, accanto all’altra dei duchi di Savoia, la più antica e la più eccelsa d’Italia. Anzi, la seconda era dalla prima eclissata per l’importanza dello Stato di Ferrara».
Teodoro Bayard De Volo, ministro e biografo dell’ultimo duca di Modena, descrive la corte estense della prima metà dell’Ottocento come una delle più note e influenti d’Europa. Affermazione che potrebbe sorprendere, trattandosi di un ducato di assai modeste dimensioni. Eppure in effetti di Modena in quegli anni si parla molto: per alcune circostanze concomitanti, come l’intransigenza di Francesco IV, le continue visite di sovrani europei caduti in disgrazia a causa dei moti liberali e la presenza di un attivissimo gruppo di intellettuali, è celebre come «la città più reazionaria d’Europa», la «roccaforte del legittimismo». E come tale diventa il punto di riferimento di tutto il mondo ancora legato ai valori dell’ancien regime. Le riviste modenesi conosceranno vasta fama, in particolare la «Voce della Verità», letta e addirittura imitata ben oltre i confini del Ducato e della stessa penisola. In Belgio esce ad esempio una «Voce della Verità» su imitazione di quella modenese. E a Recanati, Monaldo Leopardi decide di far uscire la «Voce della Ragione».
Sono anni in cui a Modena regna la pace. Il trono di Francesco IV sembra solido, benché sette, carboneria, liberali e mazziniani, lavorino nell’ombra. Il Congresso di Vienna ha restituito i troni ai sovrani spodestati da Napoleone, la Restaurazione cerca di ripristinare gli antichi valori, ma la minaccia della rivoluzione è sempre lì, incombe sugli scranni restaurati e di tanto in tanto infrange i precari equilibri.
Nella pacifica capitale estense giunge talvolta l’eco di una rivolta, di qualche tentativo d’insurrezione, di attentati orditi da giovani mazziniani. E arrivano gli effetti di rivolgimenti su scala europea, come quelli del 1821.
In seguito ai moti del ’21 a Torino abdica Vittorio Emanuele I di Savoia, padre della duchessa di Modena Maria Beatrice Vittoria, e le cronache riportano la sua esultanza nel riconoscere nel padre - nel momento in cui preferisce perdere la corona che scendere a patti con la rivoluzione - quella stessa coerenza che tanto ama anche nel marito: «Or sì veramente ch’io mi posso gloriare d’esser figlia di un grande!».
Vittorio Emanuele I non ha figli maschi e lascia il trono al fratello Carlo Felice. Essendo anche Carlo Felice privo di discendenza, in casa Savoia si pone il problema della successione. La legge salica impedisce l’avvicendamento diretto delle donne al trono e indica quale futuro erede Carlo Alberto, del ramo cadetto dei Carignano. Carlo Alberto, che ha già attirato le simpatie di certi ambienti liberali civettando con la rivoluzione fin dalla primissima giovinezza, ovviamente non piace agli integerrimi Savoia del ramo principale. Nemmeno quando, spaventato all’idea di poter perdere l’eredità, inscena la parte del principe reazionario (meritandosi peraltro dai liberali stessi soprannomi come Re tentenna o Italo Amleto): «Può essere che Dio abbia fatto il miracolo della sua conversione, ma non ha ancora fatto quello di persuadermi», commenta lapidario Carlo Felice, che non nasconde il desiderio di poter scavalcare la legge salica per lasciare la corona a Maria Beatrice Vittoria.
A Modena i moti del ’21 rimarranno tristemente noti per la condanna a morte di don Giuseppe Andreoli. Condanna esemplare, che suscita scandalo, che fa cadere su Francesco IV un’ombra indelebile, offrendo agli avversari un pretesto, un facile argomento di propaganda. È contro il suo stesso interesse politico che il Duca vuole quella condanna: è una questione di coerenza, ed è fuor di dubbio che la coerenza sarà sempre uno dei capisaldi della figura e dell’operato di Francesco IV d’Austria Este.
Quando il 15 maggio 1821 viene assassinato il capo della polizia, Giulio Besini, molti vengono arrestati e processati: affiliati alla carboneria, cospiratori, rivoluzionari, giudicati da un Tribunale speciale appositamente costituito. Poi il duca concede la grazia, tutte le pene vengono ridotte eccetto una. Don Giuseppe Andreoli è condannato a morte. Sacerdote carbonaro, subisce una pena esemplare «per essere di più stato seduttore della gioventù e più reo per le sue qualità di sacerdote e di confessore». Un prete affiliato alla carboneria per Francesco IV è intollerabile. Un duplice tradimento, un duplice pericolo: un uomo di Dio si mescola con i nemici della Chiesa, un educatore dei giovani istiga al disordine. L’esecuzione di don Andreoli, il 17 ottobre 1822, vuole essere un monito pubblico, affinché incidenti simili non abbiano a ripetersi. Molti capiscono, qualcuno no.
E quando quelli che non hanno capito prendono il potere e diventano maggioranza, Francesco IV finisce nel libro nero della storia. Verrà dimenticata la sua equa amministrazione, il benessere dei sudditi, la prosperità delle sue terre. Di Francesco IV si ricorderà solo la condanna a morte di Don Andreoli, e poi quella di Ciro Menotti. Sthendal lo sceglie addirittura come protagonista della Certosa di Parma, e il gioco è fatto: ecco pronta l’incarnazione perfetta del tiranno, soddisfatta la romantica esigenza di suddividere il mondo in buoni e cattivi, in vittime e carnefici. Ma a Modena la vita continua a scorrere tranquilla. Per dieci anni non si sentirà più parlare di disordini, insurrezioni o rivolte. Il popolo è legato agli Este, Francesco IV, ad onta della pessima fama postuma, è amato, la sua politica paternalistica garantisce a tutti un discreto benessere, la famiglia ducale, il governo, la corte sono vicini alla gente e percepiti come tali. Il noto liberale modenese Lodovico Bosellini, in un libello dall’intento dichiaratamente diffamatorio, è pur costretto ad ammettere che «il Ducato di Modena fiorì innegabilmente negli interessi materiali, ebbe mitissime imposte, solerte amministrazione, profondità di studi, coltura diffusa, fortezza d'animi, capacità d'impiegati». Insomma, anche secondo gli avversari, a Modena in quel periodo non si vive affatto male. A cosa mai i modenesi dovrebbero ribellarsi? È il secolo delle trasformazioni, certo, c’è chi parla di libertà, di uguaglianza, ma solo in pochi circoli, nei salotti alla moda, fra i borghesi. Per gli artigiani operosi, per gli instancabili contadini della pianura padana, questi non sono che concetti filosofici, e a loro la filosofia interessa poco. Nella vita quotidiana, dispongono di ciò che serve: pane quotidiano, lavoro, buone scuole dove mandare i figli più dotati, ordine e sicurezza. E anziché astratte filosofie, una religione antica, vera, pratica, fatta di confortanti devozioni quotidiane. No, alla gente comune, al popolo modenese, cambiare non sembra affatto conveniente. E dunque, quella breve tempesta passa senza lasciar traccia, poi tutto riprende a scorrere come prima. Per dieci anni. Poi in Francia nell’estate del 1830, la rivoluzione caccia Carlo X, per offrire la corona al re borghese, Luigi Filippo d’Orleans.
Nel ducato di Modena i disordini arrivano sempre così, dall’estero. Non capita mai che nascano nelle piazze, dalla gente, come frutto di qualche rivendicazione. Sono solo ripercussioni di un qualcosa di eclatante successo altrove, come in questo caso la deposizione di Carlo X. Allora qualche borghese da salotto comincia a mormorare, qualche giovane illuso da Mazzini s’infiamma, qualche intellettuale comincia a sperare di poter scrivere il proprio nome su un libro di storia.
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PER APPROFONDIRE:
Elena Bianchini Braglia, L'ULTIMO DUCA. FRANCESCO V D'AUSTRIA ESTE, Edizione Terre e Identità
Pillola n.2 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
Francesco IV d’Austria Este e la Restaurazione
Così, nel 1830, mentre l’onda della rivolta parigina deborda in tutta Europa, a Modena, il 3 febbraio del 1831, si organizza quella che passerà alla storia come la Congiura Estense, guidata da Ciro Menotti.
Anche questo episodio costerà caro alla fama postuma di Francesco IV. La cospirazione verrà scoperta, molti saranno perdonati, ma non tutti, non Ciro Menotti. E la storia saprà farne un martire. Ma anche in questo caso, allo svolgersi dei fatti, i più comprendono. I modenesi certo comprendono, tanto che quando, più di trenta anni dopo, si vorrà innalzare il monumento a Ciro Menotti che ancora oggi si erge davanti al Palazzo Ducale, vana sarà la pubblica raccolta di fondi promossa dal Comune.
Se a don Andreoli fu fatale l’essere sacerdote, ossia colpevole del tradimento più grave, quello a Dio e alla sua Chiesa, a Ciro Menotti sarà fatale l’amicizia che lo legava a Francesco IV. Imprenditore di successo, frequenta la corte e viene soccorso dal Duca in un momento di difficoltà della sua azienda di trucioli. Poi, l’incontro con Enrico Misley, il tarlo delle idee mazziniane. E l’amico diventa nemico, cospira alle spalle, ed è dunque doppiamente colpevole. Qualcuno ha provato a sostenere che Ciro Menotti fosse d’accordo col Duca, che se la cospirazione fosse andata a buon fine Francesco IV sarebbe stato Re d’Italia. In realtà è più probabile che Ciro Menotti abbia fatto questa proposta, Francesco IV l’abbia rifiutata, ma lui sia andato avanti ugualmente. Pur scomparsi gli atti del processo, e con loro la possibilità di chiarire esattamente come siano andate le cose, sono rivelatrici le parole che Maria Beatrice Vittoria ha scritto da Mantova al conte Boschetti. La Duchessa si preoccupa per quelli che sono rimasti a Modena, «che mese dev’esser stato per loro il febbraio! Ma forse peggio ancora il principio del marzo, in cui facevano quei galantuomini gli ultimi loro sforzi… arrivò al Marchese Molza quella lettera della Contessa portata dalla Marchesa Molza, che diceva invece che non avevano quiete, né di giorno né di notte. Ora poi tanto più ne sentiamo sempre delle nuove, l’una peggio dell’altra» e poi aggiunge «ma questo era tutto per fare la felicità dei popoli, come Menotti sparava addosso a Francesco per farlo Re d’Italia».
La Duchessa non può, ovviamente, già in quei giorni sapere che in futuro si dirà che Menotti e Francesco IV erano d’accordo. Se lo fossero effettivamente stati, è ragionevole pensare che lei non avrebbe osato affrontare l’argomento, tanto più mettendolo nero su bianco. Sarebbe stato infatti molto meglio far credere che nessun contatto fosse mai esistito, anziché dire che c’era stata una proposta di Menotti al Duca «per farlo Re d’Italia». Se così candidamente lo scrive, è evidente che una simile ipotesi nemmeno le passa per la testa. Siamo dunque portati a supporre che Francesco IV non fosse interessato a diventare Re d’Italia, o almeno non a costo di venire meno ai suoi principi. E d’altra parte lo aveva già dimostrato dinanzi alla possibilità di far ereditare la corona sabauda a Maria Beatrice piuttosto che a Carlo Alberto. Proprio lui si era opposto, per rispetto della legge salica, come il suo irriducibile legittimismo gli imponeva.
La Congiura Estense farà nascere a Modena l’idea di una nuova pubblicazione. Un periodico, un foglio politico che affronti, spieghi e combatta la rivoluzione in corso. È vero che una buona battaglia contro le filosofie più audaci, in difesa della fede e dell’ordine è in quegli anni egregiamente condotta dalle «Memorie di Religione, Morale e Letteratura», la cui fama si è peraltro diffusa oltre ogni attesa. È però altrettanto vero che le «Memorie» continuano ad osservare la regola inizialmente stabilita di mantenersi estranee a qualsiasi questione politica. È una regola che ad alcuni degli intellettuali modenesi comincia ad andare stretta. Molti sono convinti che la cultura da sola non basti più, che convenga ormai combattere su un piano apertamente politico, faccia a faccia con l’avversario. Anche il duca è convinto di questa necessità e accetta di finanziare un progetto editoriale. Convoca un “triumvirato” di fedelissimi, il filologo Marc'Antonio Parenti, l'astronomo Giuseppe Bianchi e Cesare Galvani, che come Guardia Nobile d'Onore si è appena validamente distinto nello sventare la congiura di Ciro Menotti. In poco tempo ogni decisione è presa. Il 4 luglio di quel 1831 esce il primo numero della «Voce della Verità». Nome che sarà presto celebre, «caro e rispettato» oppure «odioso ed aborrito», «a seconda dei giudicatori». Nome in ogni caso destinato a far diventare Modena un vero e proprio punto di riferimento per tutto il mondo cattolico e conservatore.
In redazione, fin dai primi giorni, affluiscono i più importanti nomi della cultura modenese. Nomi già celebri, come quello appunto di Marc’Antonio Parenti, letterato di fama e accademico della Crusca, o nomi ancora sconosciuti di giovanissimi talenti, come quello di Bartolomeo Veratti, di Filippo Palmieri, destinati a fare lunga strada nel giornalismo. Il livello è altissimo e la qualità del foglio sarà riconosciuta dagli stessi avversari politici, che potranno criticarne le idee ma non mai i contenuti. Ai modenesi si aggiungono presto redattori provenienti da oltre i confini del Ducato, come il principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, che per il suo ultrarealismo è stato allontanato dal Regno di Napoli e trova felice rifugio in Modena. Oppure come Monaldo Leopardi, che al primo apparire del nuovo foglio, scrive immediatamente per congratularsi e offrire collaborazione. Monaldo Leopardi amerà moltissimo la «Voce della Verità», e anche dopo aver fondato la sua «Voce della Ragione» continuerà a considerare il foglio modenese insuperabile per forza propositiva, vis polemica e tenacia.
Ovviamente, dati i presupposti, la «Voce della Verità» non passa inosservata fra gli avversari. Ribattezzata L’urlo della menzogna o la Tromba della Bugia, è il primo bersaglio degli ambienti liberali. Luigi Bosellini la definisce «unica negli annali del mondo per la sfacciata e furente esagerazione». Al confronto gli altri giornali «che diconsi clericali», non sono che «sfumature acquerellate».
Una delle più note battaglie è quella contro Mazzini e la Giovine Italia. La sfida viene lanciata fin dall’inizio: «Un’empia associazione si è formata in Marsiglia dal rifiuto e dalla feccia degli emigrati italiani, la quale impudentemente si da il titolo di Giovine Italia... si sappia che la Voce della Verità raccoglie il guanto che costoro gettano all'Italia e che combatterà le inique loro dottrine», scrive Cesare Galvani sul n. 70, il 17 gennaio 1832. Mazzini risponde tacciando i redattori della «Voce» come «quei vili la cui penna si vende a chi più la compra», e accusa il Galvani di non essersi firmato nell'articolo in cui lo ha attaccato. La controreplica non si fa attendere: «Sì, noi professiamo odio per le opinioni che sovvertono il mondo, noi professiamo di odiare e di combattere le opinioni della Giovine Italia. Odio agli errori, vendetta della verità sull'errore». E in merito all'accusa di anonimato: «Voi mentite. Cesare Galvani che allora scrisse di voi, e qui scrive di nuovo, non si è occultato né si occulterà mai, perché non vi teme. Egli fin dal n. 30 del suo giornale pubblicava in simile circostanza il suo nome; egli si fa gloria della propria opinione e degli insulti che gli versano sopra i nemici di Dio e dei legittimi Re». Mazzini non risponde più, ma continua a leggere la «Voce della Verità». Anzi, ne è ossessionato, non ne perde un fascicolo. Dall’esilio in Svizzera incarica la madre di acquistare tutti i numeri e di inviarglieli. E se gli si chiede il perché, fa dell’ironia: «le ingiurie della Voce della Verità son qui uno dei pochi divertimenti che possa avere».
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PER APPROFONDIRE:
Elena Bianchini Braglia, L'ULTIMO DUCA. FRANCESCO V D'AUSTRIA ESTE, Edizione Terre e Identità
Pillola n.3 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
Il progetto di Confederazione del principe ereditario
Ancora giovanissimo, il primogenito di Francesco IV, il futuro Francesco V, che in tutto e per tutto eredita le idee politiche del padre, scrive un ricco saggio intorno alla possibilità di una Confederazione. Si tratta di un progetto dettagliato, logico, modernissimo. Francesco non ignora i pericoli del suo tempo. Sa che la Restaurazione ha in realtà restaurato ben poco. Ha restaurato i troni, certo, almeno per il momento, ma non ha riportato i valori che li sorreggono al lustro dei tempi antichi. Ha restaurato un precario equilibrio, che tuttavia sembra talvolta aver paralizzato più che rinvigorito i sovrani. Ora tutti, l’Imperatore in primis, sono preoccupati di mantenere questo equilibrio a qualunque costo, e hanno paura ad agire, hanno paura di chi pensa, scrive e lotta, non solo nell’ambito della rivoluzione ma anche della reazione. È molto chiaro alla lungimiranza di una mente vivace come quella di Francesco, che tutto ciò non potrà durare per sempre. Gli scrittori al soldo dei piemontesi, gli storici infarciti di retorica risorgimentale, hanno dipinto Francesco V come uno scialbo “tirannello” succube dell’Austria e ostinatamente legato al passato. «Francesco V non era uomo dei nostri tempi», è ciò che più spesso si legge di lui. E secondo i nuovi dogmi tanto basta a escluderlo dal novero dei personaggi interessanti. In realtà Francesco V è legato al passato per quei valori che lui considera imprescindibili, come la fede cattolica, la difesa della Chiesa, la sacralità della monarchia. Ci sono per lui alcuni principi intoccabili, e su quelli non è disposto a scendere ad alcun compromesso, a costo di perdere il trono e la vita stessa. Ma su tutto il resto Francesco V è non solo aperto, ma acutissimo e lungimirante, come dimostrano i suoi scritti e soprattutto il saggio sulla necessità di una Confederazione italica: «Credo fermamente e lo riterrò fino alla morte che l’idea principale, il fatto cioè di un’unione politica degli Stati d’Italia sotto il protettorato dell’Austria è un’idea giusta, salutare, che ha l’Italia per salvarsi dal naufragio».
Quando Francesco scrive, nell’autunno 1840, a Modena certo non si avverte tutta quella necessità di cambiamenti: il ducato è sempre stabile, prospero, il popolo affezionato ai sovrani. Eppure Francesco vede più lontano, sa che i nemici stanno strumentalizzando l’idea di nazione, che stanno creando un connubio fra Italia e rivoluzione. E vuole prevenirli, privarli di argomenti e pretesti. Occorre una riforma ragionevole, senza rivoluzioni, senza disordini. Nel rispetto della religione e delle antiche tradizioni, dove gli stati che compongono la penisola agiscano in concerto. Anche e soprattutto per scongiurare il pericolo di nuove invasioni straniere. L’esperienza giacobina ha lasciato ferite aperte, Napoleone aveva creato un Regno italico che era solo un satellite della Francia. Ora che i legittimi sovrani sono tornati sui loro troni, devono accordarsi affinché simili esperienze non abbiano a ripetersi.
La formazione di una Confederazione permetterebbe di costituire un’armata di dimensioni tali da scoraggiare le mire espansionistiche delle altre potenze. Con un rapido conteggio, Francesco ne calcola le dimensioni: «L’Italia aveva nel 1825 la popolazione di circa 19.818.730 anime, senza contare il Tirolo e la Svizzera italiana, né la Corsica, ora purtroppo nelle mani dei più grandi nostri nemici, né Malta, appartenente ai maggiori pirati dei tempi moderni».
Impossibile non notare la stoccata inferta fra le righe a Francia e Inghilterra. I motivi per cui la Francia è considerata da Francesco il peggior nemico, sono chiari. Con la sua rivoluzione ha sconvolto l’assetto europeo, le invasioni napoleoniche hanno portato in Italia violenza e saccheggi. Ora poi, sul trono di Francia non siedono più sovrani legittimi. C’è il re borghese, l’usurpatore Filippo d’Orleans. In futuro arriverà addirittura un nuovo Bonaparte. Per Francesco la Francia non può che essere una terra ormai perduta. La questione dell’Inghilterra è più sottile, ma non meno pericolosa. La Francia è il nemico sfacciato, l’Inghilterra è il nemico subdolo. La Francia fa esplodere la grande rivoluzione, detronizza, invade e conquista. L’Inghilterra tace, nel teatro dei rivolgimenti ottocenteschi resta dietro al sipario. Non in platea, da spettatore. Dietro al sipario. A muovere i fili. «I maggiori pirati dei tempi moderni» sono i registi della rivoluzione. Ciò sarà chiarissimo nel 1861. Nella conquista del Sud l’apporto dell’Inghilterra sarà decisivo. Il suo ruolo nel compimento dell’unificazione italica sarà ancor più determinante di quello della Francia. Francesco è lungimirante, non ha bisogno di aspettare per riconoscere i propri nemici. A Modena peraltro un incidente diplomatico con l’Inghilterra di lì a poco porterà alla chiusura della «Voce della Verità».
Per ironia della sorte peraltro, di questa «madre delle rivoluzioni» Francesco dovrebbe essere il legittimo sovrano. All’Archivio di Stato di Modena si conserva un documento che designa appunto Francesco d’Austria Este Re d’Inghilterra. Non di fatto ovviamente, ma per la linea legittima che ancora viene riconosciuta dai giacobiti. Per capirne i motivi occorre andare indietro di quasi due secoli. Nel 1685 viene incoronata Regina d’Inghilterra una principessa modenese, Maria Beatrice d’Este, moglie di Giacomo II Stuart. Dopo appena tre anni, gli Stuart, detestati dal parlamento inglese per la loro fede cattolica, vengono spodestati con la cosiddetta Gloriosa Rivoluzione. La corona passa a Guglielmo d’Orange, ma Giacomo Stuart non abdica, e per i legittimisti rimane l’unico vero sovrano. E dopo di lui il figlio Giacomo III, poi il nipote Carlo Edoardo, che non avrà eredi. Il titolo passerà allora al parente più prossimo, Carlo Emanuele IV di Savoia, che lo lascerà a sua volta al fratello Vittorio Emanuele I. Vittorio Emanuele di Savoia ha quattro figlie femmine, la primogenita è Maria Beatrice Vittoria. E se per la legge salica la duchessa di Modena, in quanto donna, non può ereditare la corona sabauda, può tuttavia ereditare quella d’Inghilterra, dove la legge salica non è mai entrata in vigore. Così, la sovranità inglese ritorna laddove la sfortunata Mary of Modena era partita.
Ovviamente per Francesco V alla prova dei fatti non si tratta che di un inutile pezzo di carta. La storia non si fa con i se e con i ma, dicono. Però può essere utile talvolta soffermarsi a pensare a come tutto possa cambiare, anche a distanza di secoli, in conseguenza di un solo atto. Soprattutto in casi estremi come questo. Se gli Stuart non fossero stati spodestati, probabilmente l’Inghilterra anziché della rivoluzione sarebbe stata madre della reazione. Di certo sarebbe stata governata da uno dei sovrani più conservatori d’Europa. È ovvio che tutto il corso degli eventi sarebbe cambiato. Un po’ come se Maria Beatrice Vittoria avesse potuto ereditare la corona sabauda. Al posto di Carlo Alberto che civetta coi liberali, sul trono del Piemonte ci sarebbe stato l’intransigente Francesco IV, e l’Italia non si sarebbe fatta, o si sarebbe fatta in modo diversissimo. Magari proprio secondo l’idea di Confederazione di suo figlio Francesco.
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Pillola n.4 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
La chiusura della «Voce della Verità»
Nel 1841 la «Voce della Verità» dopo aver combattuto «gagliardamente per la religione e pel trono» cessa le sue pubblicazioni. Non certamente per mancanza di abbonati e lettori. La motivazione ufficiale è che non serve più: quel 1831 che l’ha vista nascere, richiesta dalle impellenze politiche è ormai lontano, disordini da allora non ce ne sono più stati.
«Non è tanto lodato il saper dire, quanto il sapere, a tempo suo, finire». Con queste parole prese a prestito dalla sapienza dei classici, Marc’Antonio Parenti chiude il periodico, spiegando appunto che «sono cessate od almeno sopite le cagioni per le quali si fece da prima sentire».
In realtà, un incidente diplomatico ha influito in maniera decisiva sulla sofferta decisione di chiudere il foglio. Un articolo piuttosto scomodo ha fatto indignare l’Inghilterra. Il tema è quello delicatissimo del carlismo. Francia e Inghilterra sul problema della successione spagnola non si sono pronunciate, hanno ufficialmente proclamato il non intervento. Tutti sanno tuttavia che le loro simpatie non sono certo rivolte ai carlisti. Quando l'assedio di Bilbao, a un passo dal trionfo, fallisce per la caduta di Tomas de Zumalacarreguy, sulla «Voce della Verità» appare un articolo che mette in imbarazzo perfino Francesco IV: «La palla inglese che ha ferito Zumalacarreguy, il quale era stato risparmiato dalle pallottole spagnuole, rivela la mano fatale che suscita tutte le rivoluzioni. In ogni epoca, in tutti i paesi, qualunque sia il partito che domina a Londra, si è sicuri di trovare lo spirito inglese come il principio di tutte le calamità. Bisogna adunque, perché la pace sia restituita al mondo, che questa potenza malefica cessi d’essere in istato di nuocere».
La crisi diplomatica è inevitabile. L’ambasciatore inglese Lord George Hamilton Seymour presenta una nota di protesta formale. Il duca ordina ai redattori di scrivere una rettifica, nessuno di loro però accetta. Usciranno ben cinque numeri senza che vi si possa leggere una sola riga di scuse. È questo, a ben guardare, un fatto degno di nota. Il duca sostiene economicamente il foglio, chiede che venga scritto qualcosa e i giornalisti rifiutano. Ovvero, quelli che oggi sarebbero tecnicamente definiti suoi “dipendenti”, rifiutano di fare ciò che egli ordina sia fatto su un “prodotto” da lui pagato. Ciò deve far riflettere. Gli intellettuali modenesi sono stati accusati dagli avversari di essere servi di un tiranno, penne al servizio del potere, Mazzini ha letteralmente scritto «quei vili la cui penna si vende a chi più la compra». Ebbene, i fatti dimostrano che così non è. Gli intellettuali modenesi scrivono su una rivista voluta e finanziata dal duca, e se scrivono quel che piace al duca è perché è anche ciò che piace a loro. Se il duca esige che venga scritto qualcosa che loro non reputano giusto, rifiutano. Trovare altri casi di siffatta indipendenza tra “finanziatore” e “finanziato”, non è facile, ancora (o soprattutto) oggi.
La sospirata rettifica che potrebbe appianare il contrasto con l’Inghilterra dunque non arriva. Il duca spazientito si rassegna a scriversela da sé. Viene pubblicata sul numero 646 del 22 settembre, ma non soddisfa gli inglesi. Lord Palmerston in persona annuncia come essa non contenga «in nessuna maniera l’apologia ch’era stata richiesta dal governo di Sua Maestà». Ora, aspettarsi che Francesco IV scriva una “apologia” è indubbiamente eccessivo. E infatti a questo punto egli abbandona anche l'idea delle scuse. Per cinque anni non ci sarà nessun rapporto diplomatico fra Modena e Londra. Poi, le trattative riprendono per intervento del Metternich: l’Austria ottiene dalla Regina d’Inghilterra il ristabilimento delle relazioni con Modena nell'aprile del 1841. Nel comunicare a Francesco IV che la crisi è risolta, il Metternich si raccomanda di far «sorvegliare la redazione del foglio in questione». E in questa frase del Metternich possiamo trovare le ragioni della decisione di chiudere la rivista all'apice del successo e della fama. Accettare di essere sorvegliati non è per i redattori modenesi cosa possibile. Tutti sono concordi nel preferire che la «Voce» zittisca prima di doversi allontanare dalla «Verità».
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Pillola n.5 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
La morte di Francesco IV
Il 21 gennaio 1846 Francesco IV muore nell’illusione di lasciare al figlio un trono solido e duraturo.
A ventisei anni Francesco è Duca di Modena e Reggio, Duca di Massa e Principe di Carrara, Signore di Carpi, Duca di Mirandola a Guastalla, Marchese di Concordia. Regna su un territorio - comprendente anche Lunigiana, Garfagnana e Frignano - che si estende per poco più di seimila chilometri quadrati, con una popolazione di circa seicentomila abitanti.
Come sovrano agirà sempre con carità e giustizia, mantenendo intatto il carattere semplice, sobrio e onesto che ha mostrato fin da ragazzo. Dal padre ha ereditato la religiosità, l’incrollabile fede nell’origine divina del potere monarchico, tutti i valori della tradizione e la coerenza nel difenderli. Bosellini sottolinea la sua inesperienza e il fatto che sia «d’ingegno meno potente» rispetto al padre, ma gli riconosce equilibrio e sobrietà, lo definisce «economo e non inclinevole al fasto», ne apprezza «il vergine cuore», «le parole che di lui si narravano» e «l’amor del luogo natìo».
A lui toccherà affrontare il divampare di quelle fiamme che covavano sotto la cenere e che porteranno alla scomparsa del suo ducato. Lo farà con quelle doti di fortezza e coerenza che già hanno contraddistinto l’operato di suo padre.
Sarà l’unico sovrano italico a non mettere mai in discussione, nemmeno quando le convenienze pratiche lo suggeriranno, la fedeltà all’Austria. Francesco ama Modena, ne desidera e ne procaccia il benessere. Modena è legata all’Impero da secoli, dunque lui si sente modenese e si sente austriaco. Non c’è alcuna contraddizione, nessuna ottusità, nessun passatismo nella sua coerente e mai rinnegata fedeltà.
Alla cosiddetta prima guerra di indipendenza, la capitale estense risponde con assai scarso entusiasmo. È nota la lettera del 14 aprile 1848 in cui uno sconfortato Carlo Collodi comunica che «da tutti abbiamo avuto buona accoglienza meno che a Modena, dove ci aspettavamo molto e avemmo poco, per non dir nulla». Ma nel 1859, con la seconda guerra di indipendenza, si farà, con l’aiuto dello straniero, quello che non si era riusciti a fare dieci anni prima.
«Bisogna perlomeno ottenere il risultato che l’Austria sia detestata da tutti. Un giorno o l’altro questo odio universale porterà i suoi frutti». La campagna propagandistica piemontese è eccellentemente sintetizzata in una frase di Cavour. La lettera che la contiene, datata 19 marzo 1856, è indirizzata a Emanuele D'Azeglio. Il tessitore dopo gli accordi di Plombières cerca pretesti che gli consentano di entrare in conflitto con l’Impero garantendosi l’appoggio della Francia. Così, il Piemonte potrà ingrandirsi occupando i Ducati padani.
Cavour e Vittorio Emanuele programmano l’inizio della politica espansionistica sabauda, l’invasione arbitraria di antichi Stati sovrani. Un atto illegittimo che necessita di una giustificazione da offrire all’opinione pubblica e alle potenze europee. Per questo Cavour e Napoleone III inventeranno la celebre espressione, poi pronunciata da Vittorio Emanuele, del «grido di dolore», che sarebbe quello dei popoli “oppressi”, ai quali i piemontesi si offriranno di dare risposta. Il fatto poi che tutto vada a rovescio, che i popoli oppressi si sentano oppressi da chi vuole liberarli dall’oppressione, poco importa. Quello che serve è un pretesto. Solo un pretesto. L’amico e biografo di Cavour, William De La Rive, riconosce «la misura del suo genio» nel fatto di essere riuscito a entrare in guerra «in piena pace». Consentiamoci una piccola riflessione legata ad odierni accadimenti. Sull’attuale guerra in corso fra Russia e Ucraina viene spesso utilizzata la semplicistica sentenza che «chi invade ha sempre torto». E di solito chi la pronuncia non mette però in discussione l’unità d’Italia e il modo in cui è stata raggiunta. Non rinuncia a tutto il bagaglio di luoghi comuni legati al cosiddetto Risorgimento. Né a quelli legati alla Grande Guerra, quando il 24 maggio 1915 l’Italia invade un paese che fino a poco prima era suo alleato.
Ora sappiamo che, per arrivare a unificare la penisola sotto l’egemonia sabauda, Cavour è disposto a tutto. Violenze, truffe, inganni. Nessuno scrupolo. La sua coscienza può sopportare di tutto, qualcuno lo ha ribattezzato il Machiavelli dei tempi moderni. L’importante è riuscire a salvare un minimo di apparenza: basta lasciare i giochi più sporchi in mano agli altri, e guardarli con aria di sufficienza. Servono a questo repubblicani e socialisti, i Mazzini, i Garibaldi, gli «enfantes terribles dei framassoni».
Gli stessi disordini che nel corso del 1857 turbano la pace delle province estensi dell’Oltrappennino - mentre Modena ancora si mantiene tranquilla - non sono che il frutto dei giochi politici del tessitore. Al Convegno di Plombieres Cavour e Napoleone III si sono messi d’accordo proprio per creare incidenti nell’Oltrappennino estense e garantirsi così il pretesto per l’intervento delle truppe francopiemontesi.
I Savoia sono pronti a fare un’Italia nuova. E se per farla devono invadere terre altrui appoggiandosi allo straniero, pazienza. Bisogna liberarsi dal giogo dell’Austria. E se per farlo è necessario mettersi sotto quello della Francia e dell’Inghilterra, pazienza. Chi ha detto che l’Austria è peggio della Francia e dell’Inghilterra? Cavour. Lo stesso che accusa il Duca di Modena di non potersi sostenere senza l’aiuto dell’Imperatore, e poi intraprende una campagna che non potrebbe nemmeno essere pensata senza le truppe della Francia e i finanziamenti dell’Inghilterra: «Per coloro i quali congiuravano a riformare suo malgrado l’Italia, la necessità dell’intervento straniero era ormai un assioma, la qual cosa poi come si accordasse coll’indipendenza nazionale e come non ripugnasse alla cotanto agognata affrancazione dallo straniero, assai poco essi si curavano di giustificare».
Che una sconfitta dell'Austria andrà a ripercuotersi sul destino dei sovrani dei piccoli ducati è prevedibile, ma Francesco V resterà fedele, fino alla rovina completa. Non assomiglia a Cavour, non potrà mai essere paragonato a Machiavelli. Alla sua morte la rivista «Il Veneto Cattolico» lo ricorderà come il solo che «in mezzo alla codardia universale, restò saldissimo nei suoi principi; quando tutti adulavano al trionfatore, ei solo mostrassi veramente libero e indipendente; quando tutti cedevano, egli seppe opporre la più nobile delle resistenze. La rivoluzione lo spezzò ma non valse a piegarlo giammai».
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Pillola n.6 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
L’esilio di Francesco V e la fine del Ducato Estense
La vittoria franco-piemontese a Magenta, il 4 giugno, è il punto di non ritorno. Le Legazioni austriache vengono ritirate dal ducato, non c’è più protezione alcuna contro la minaccia francopiemontese. Fino a quel momento speranzoso, il Duca - anche per «non esporre i sudditi ai mali inevitabili di una difesa probabilmente infruttuosa» - lascia i suoi Stati, le terre che gli appartengono «non tanto per avito legittimo retaggio, quanto assai più perché ne aveva conquistato colla giustizia e coi benefizi l’amore e la gratitudine». Francesco V capisce che non potrà opporsi all’invasore, che quando i piemontesi arriveranno, forti degli aiuti francesi, lui invece di aiuti non ne avrà. Potrà opporre solo la sua truppa, un piccolo esercito di tremila uomini. Comprende di non avere scelta. Non si tratta di una fuga. Si tratta di evitare una guerra, evitare che il popolo debba pagare un prezzo di sangue. I liberali lo deridono come fuggitivo. I modenesi ne apprezzano invece la generosità. E non lo dimenticano. Si opporranno in ogni modo al governo usurpatore, e ancora molti anni dopo la sua partenza saranno ad attenderne fiduciosi il ritorno.
All’alba di sabato 11 giugno, il Palazzo è in fermento. Cortigiani e domestici si stringono intorno al sovrano, nelle anticamere, fino al cortile. Lui saluta tutti affettuosamente. Accigliato e cupo, non perde il suo garbo. È sempre elegante, sobrio e austero, nell’uniforme da Generale dei Cacciatori, con un cappello bordato d’oro e il pennacchio a piume cadenti. Sale a cavallo lentamente, ancora salutando, e poi parte all’improvviso, quasi di scatto. Per non cedere alla commozione forse, o per non prolungare un momento troppo doloroso. Raggiunge Piazza d’Armi dove lo attendono le truppe schierate. Nella sorte avversa lo confortano i suoi soldati, che non vogliono lasciarlo. Hanno deciso di seguirlo, tutti. In esilio volontario. Sono uomini di ogni ceto e condizione, sudditi fedeli determinati a rispettare il giuramento prestato.
Francesco V è il solo sovrano ad essere seguito in esilio dalle sue truppe. Il granduca di Toscana Ferdinando IV dal suo esercito è stato tradito e abbandonato. In una lettera da Monaco, il 10 gennaio 1860, racconterà a Francesco dei suoi soldati, scontenti del governo piemontese e in gran parte pentiti della propria infedeltà - «Nella truppa vi sono dei segni di ravvedimento. Faccio voto perché possa ora questo operarvi completamente, e venire adesso il bene da quella che colla sua infedeltà è stata causa di molti dei nostri mali» - felicitandosi dell’ottimo esempio dato dalla truppa estense: «Ho piacere, caro Francesco, che nella tua si conservino quei sentimenti di fedeltà, di attaccamento al loro Sovrano, che desidererei poter ispirare nella mia. E qui permettimi di farti i miei sinceri complimenti, dovendosi alla tua fermezza, all’interesse che mostravi per essa, quello spirito militare e di corpo che ha sempre esistito nella tua armata».
Il 13 giugno il Municipio decreta che «tutti gli stemmi del cessato governo saranno indilatamente abbassati». Il 16 giugno arriva a Modena il Commissario Regio Luigi Carlo Farini: «Scarsa fu la gente che si raccolse una mattina sotto il palazzo comunale per acclamarvi Farini dittatore, sebbene ne fosse venuta dal di fuori. Tutt’intorno alla vasta piazza erano case di antichi servitori e partigiani del Duca; sicché, meno quelle di un piano di una casa, tutte le altre erano chiuse».
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Pillola n.7 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
Rivolte antipiemontesi nel ducato estense
Anche dopo l’insediamento di Farini i modenesi continuano ad attendere il ritorno del duca. Le cronache narrano di come le campagne cominciano a sollevarsi, soprattutto quando, il 3 agosto 1859, un decreto impone l’iscrizione obbligatoria nei ruoli della guardia nazionale. Contadini percorrono strade e campi al grido di «Viva Francesco V! Morte ai liberali!», dicono di voler «transitare il Po» e di voler «andare ad unirsi alla truppa del duca, anche per ricondurlo» perché «i partigiani dell’attuale governo sono tutti porci e lazzaroni».
Agli inizi di novembre, il comandante del reggimento piemontese stanziato a Mirandola ordina una retata nelle case dei contadini per convincerli a «dare termine ai dileggi che certuni fra il contado facevano ai nostri soldati» e per «far cessare il continuo archibugiare di notte tempo». I soldati sequestrano quarantotto fucili e sette pistole ma ciò non serve a ristabilire l’ordine.
I soldati piemontesi non riescono più a farsi rispettare. Il metodo più usato nelle campagne è quello delle scorribande notturne. Il 31 ottobre a Concordia numerosi spari allertano i soldati di presidio. Usciti dall’accampamento vedono quattro contadini e cercano di fermarli con il consueto «Chi va là?».
«Polenta e baccalà» rispondono i quattro prima di correre via nel buio, ridendo e schiamazzando. I soldati li seguono, li arrestano e li portano in carcere. E il giorno successivo vengono requisite le armi, anche da caccia, a tutti gli uomini del paese, compreso il parroco.
I contadini non amano i soldati e non ne rispettano gli ordini. È anche vero però che, stando a quanto si legge in alcuni documenti, le milizie piemontesi non fanno nulla per farsi rispettare. A fine novembre a Carpi il sindaco deve farsi portavoce delle proteste dei cittadini contro i soldati «pel riprovevole loro contegno da non potersi più tollerare». Violano la disciplina militare e non hanno nulla a che vedere «con l’onesto vivere costumato». La stessa Guardia Nazionale in un rapporto al sindaco denuncia gli eccessi dei soldati piemontesi, che fanno man bassa di legna nei magazzini, vendono di nascosto abiti, divise e beni del Comune, tanto che la popolazione alza «alte grida di riprovazione e scontento».
Non solo a Modena e a Reggio, ma anche in Garfagnana e a Massa il popolo si ribella al nuovo regime. A Massa si dice che «chi portava amore all'Italia veniva segnato a dito come un cervello sconvolto» e, dopo l'esilio dei duchi, Francesco Selmi scrive a Giuseppe La Farina lamentando che «la città di Massa conta buon numero di duchisti; moltissimi nel contado circostante. In alcune ville può dirsi che si sopporta per timore la dominazione piemontese, e che ivi le disposizioni sarebbero a pigliare anche le armi contro di noi».
In Garfagnana la situazione per il governo Piemontese è sempre più difficile. In primavera il nuovo delegato di Polizia Ponticelli denuncia la ripresa della protesta politica e chiede di poter utilizzare mezzi più severi. Nel suo rapporto si legge che «una straordinaria agitazione si manifestò da qualche giorno ne circondario»: «con grida di Viva Francesco V e spari di mortaretti, imprecavano alla caduta del governo attuale». Il delegato spiega di aver tentato di «tutelare il buon ordine, e di procurarsi notizie sui principali autori di tali atti manifestamente ostili al governo», mandando sul posto «alcune guardie di pubblica sicurezza» le quali però, deve ammettere, «ebbero a ritornarsene ben presto, non solo prive di ogni informazione dei fatti, ma pubblicamente e rumorosamente vilipese con urli e fischi da quei paesani che, raccoltisi sopra un’altura, non cessarono da tali insulti, e dalle grida di Viva Francesco V, finché non si furono totalmente allontanate le medesime guardie». Prende quindi atto del fallimento e ammette che, se si volesse ristabilire l’ordine con mezzi legali «non si verrebbe mai a capo di nulla». È inutile interrogare o minacciare, visto che sono tutti pronti eventualmente «a subire lo carcere». Il Ponticelli espone dunque la sua idea per «porre un freno a simili insolenti provocazioni». Le autorità non sono rispettate e la minaccia del carcere non basta a piegarli, anche perché essi contano sul fatto che il Duca tornerà e che quindi una eventuale incarcerazione sotto il regime piemontese diverrà per loro un merito. Dunque bisogna incarcerarli sì, ma lontano dalla loro terra: «Con questa sola misura verranno atterriti i più audaci e si rialzerà presso tutti l’Autorità del governo».
Il Trattato di Villafranca ha riacceso le speranza dei legittimisti. I contadini che insorgono sono convinti che il duca stia per tornare. Anche la Brigata Estense è pronta a entrare in azione. Benché conti poco più di tremila uomini - mentre Farini ne ha a disposizione oltre ventimila - Teodoro Bayard De Volo è certo del successo, perché «appena toccati i confini la campagna intera sarebbesi sollevata in favore del Duca, e raggruppandosi intorno alle milizie uscite dal proprio seno, avrebbe offerto un appoggio e una difesa più che bastanti al partito della legittimità». Francesco V avverte però la precarietà di condizioni a lui solo momentaneamente favorevoli, e non ne approfitta. Il Trattato di Zurigo del 10 novembre gli darà ragione. All’articolo 19, ribadisce infatti i diritti del Granduca di Toscana, del Duca di Modena e del Duca di Parma, ma evita di sancire la loro restaurazione. Cioè, viene riconosciuto che i duchi avrebbero il diritto di rientrare nei loro stati, ma non si decide nulla per fare sì che ciò avvenga e si esclude la possibilità di un intervento di truppe straniere. Francesco nelle sue Memorie, alla data del 11 luglio, dopo avere annotato quanto Francesco Giuseppe gli aveva riferito in merito alla proposta di un suo ritorno a Modena, aggiunge che «l’Imperatore continuò dicendo che però noi dovremmo conquistare gli Stati nostri, giacché egli non poteva intervenire». E quindi lui decide di attendere a Vienna che «o si rompesse l’armistizio o si concludesse una pace che desse possibilità di tornare con onore, giacché se io non vedeva ciò fattibile non vi sarei tornato». È lucido e disincantato, non si fa illusioni, si rende conto che ormai nemmeno i suoi stessi alleati sono disposti a difenderlo. E che nemmeno coloro che avrebbero interesse a denunciare un’usurpazione illegittima, quantomeno per evitare che si creino pericolosi precedenti, hanno il coraggio di farlo: «Napoleone fa il suo mestiere, ma il resto d’Europa non fa il suo» osserva ancora nelle Memorie, aggiungendo parole profetiche sul futuro di tutte le corone: «ma lo sconterà, giacché la monarchia ereditaria è impossibile con le massime alla moda, che non generano che l’alternativa di licenza e di tirannica dittatura sui popoli».
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Pillola n.8 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
La grande truffa dei plebisciti
Il governo di Farini a Modena inizia con la persecuzione di coloro che si professano ancora fedeli al duca: «Ho fatto arrestare qui alcuni dei più operosi emissari austroestensi. Gli spioni li mando al Consiglio di guerra», scrive a Giuseppe La Farina, aggiungendo: «Ordino le destituzioni numerose». E infatti rimuove dalle loro importanti cariche accademiche tra gli altri Bartolomeo Veratti, Giuseppe Bianchi e Marc’Antonio Parenti. Per rimpiazzarli bandisce un concorso pubblico aperto «a tutti gli italiani di qualsiasi Stato», si potrebbe aggiungere purché non fedeli ai rispettivi sovrani. Del resto i nomi dei prescelti sono tutti noti negli ambienti liberali. Vengono anche chiamati a Modena personaggi di fama, come il filosofo Bertrando Spaventa, che inaugura l’Anno Accademico per poi andarsene pochi mesi dopo. Viene addirittura invitato come penalista Giuseppe Pica, che per fortuna declina l’invito. Pochi anni dopo legherà il suo nome alle mostruose leggi per la repressione della protesta del Sud. Fra i nuovi docenti c’è anche Lodovico Bosellini che, appena instaurato il governo piemontese, è entrato nella commissione deputata ad adattare il codice legislativo del Regno di Sardegna alle terre estensi. Da giurista non può non rendersi conto dell’inadeguatezza del nuovo sistema legislativo. Dell’assurdità di estendere le leggi piemontesi a tutti gli Stati italici. Così, nel corso degli anni, matura una progressiva delusione. Vede leggi inappropriate, vede la classe dirigente sabauda che non fa nulla per cambiarle, vede Modena, un tempo capitale, divenire sempre più marginale. E forse anche per questo gli nasce quel desiderio di scrivere una lettera al Duca, di scusarsi, almeno, per ciò che ha scritto in quel libello infamante commissionatogli da Farini.
Nelle giornate dell’11 e 12 marzo 1860 gli abitanti dei ducati di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza, e del granducato di Toscana sono chiamati al voto. Francesco V è sicuro che il popolo, interrogato tramite suffragio, non lo tradirà: «Il governo estense non temerebbe il suffragio universale, cioè il voto libero di ogni individuo del ducato, il suffragio il più lato possibile delle città, borgate e campagne», scrive il 31 luglio 1859 al conte Teodoro Bayard De Volo. Le sue aspettative vengono com'è noto deluse, ma sul fatto che i cosiddetti plebisciti siano ben lontani dall’aver rispecchiato la volontà popolare non ci sono ormai più dubbi. «Della serietà dei famosi plebisciti non è nemmeno il caso di parlarne» tagliava corto Antonio Gramsci.
E di fronte a quella quasi unanimità per l’annessione che secondo Tomasi di Lampedusa uccide per sempre «la buonafede», i modenesi scrivono una protesta ufficiale: «Alziamo la voce al cospetto di tutta Europa, dichiarando fittizia, adulterata, falsificata l’unanimità di quella votazione e di quei suffragi che vogliosi apparire come esprimenti l’universale opinione di questi popoli, i quali, lungi dall’esternar liberamente il loro voto, non fanno che subire una multiforme violenta pressione per farsi organo di quella d’altrui» e «protestiamo come cittadini decantati liberi, contro tutte le arti, i soprusi, le angherie e menzogne d’ogni specie, con cui si è forzata la nostra volontà, imponendoci quella di un partito, che per la sua minoranza, a confronto dell’immensa maggioranza contraria sarebbe una frazione spregevole se non fosse dagli stranieri sostenuta». Sul fatto che il partito liberale imponesse la propria volontà pur potendo contare su pochissimi simpatizzanti insiste anche un cittadino estense che, dopo la partenza di Francesco V, decide di intraprendere un viaggio lungo tutte le terre del Ducato allo scopo di saggiare gli umori del popolo, e riportarli in una lettera al Duca stesso: «i voti, i suffragi, che in lunghe liste si pubblicarono fino alla nausea e al ridicolo, carpiti furono nella massimissima loro parte, dall’intrigo, dalla violenza, dalle minacce, dalle promesse; e sull’anima mia vi giuro, e su quella dei figli miei, che il quattro appena su mille dei vostri sudditi è reo di disamore verso di Voi... Ad uno ad uno son conosciuti i liberali in ciascuna città, in ciascuna contrada, in ciascuna famiglia, in qualche raro paese della campagna. Il pregiudizio, il danno immenso, irreparabile forse, che han recato alla povera Italia ce li han fatti tutti mettere in nota, e al desideratissimo vostro ritorno vi saranno ad uno ad uno distinti, non per ispirito di vendetta, non perché abbiate su di essi ad aggravar la mano, ma perché consolarvi possiate del dispregevole impercettibile loro numero. Altrettanto è della Toscana, ditelo pure a conforto dell’Augusto desideratissimo Suo Sovrano! Affrettate entrambi il ritorno vostro e dalle feste, dall’accoglienza che vi prepariamo in segreto, perché ci pesa sul collo la Daga dei Piemontesi, conoscerete voi, conoscerà l’Europa se vi mentisco».
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PER APPROFONDIRE:
Elena Bianchini Braglia, L'ULTIMO DUCA. FRANCESCO V D'AUSTRIA ESTE, Edizione Terre e Identità
Pillola n.9 - IL DUCATO DI MODENA NELL'OTTOCENTO: LA "ROCCAFORTE DEL LEGITTIMISMO"
La vicenda esemplare della Brigata estense
Secondo Teodoro Bayard De Volo il «vero plebiscito» di Modena, l’autentica espressione della volontà popolare è la vicenda della Brigata Estense, di quella truppa che compatta segue il duca in esilio: «Se ancor si rifletta che a ciò non furono né violentate né costrette, ma vi si condussero con generoso e spontaneo entusiasmo; non si può non iscorgere in questa loro abnegazione un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in iscena con menzognero prestigio».
Composta da uomini di ogni ceto e condizione, è una sorta di campione della cittadinanza modenese, e non è mera illusione pensare che ne rispecchi i sentimenti. È dunque per Francesco V un’indubbia consolazione vedersi circondato da tanta fedeltà.
In esilio con il duca, i soldati prendono stanza in Veneto, a Bassano del Grappa. Il loro quartier generale è a Cartigliano.
Il parlamento austriaco, che dopo la battaglia di Solferino ha una maggioranza liberale, presto comincia a porre il problema della Brigata Estense, inizialmente con pretesti di natura economica. Si mette in evidenza l’assurdità di mantenere l’esercito di uno stato che non esiste più. Il duca scoraggia dunque nuovi arrivi, ma non vorrebbe rinunciare ai fedelissimi che lo hanno fin dall’inizio seguito nella sventura. E che continuano a restare con lui nonostante le difficoltà, le minacce e le promesse dei piemontesi.
Farini, Vittorio Emanuele e Garibaldi a turno indirizzano appelli ai soldati per invitarli a rientrare nelle loro case, minacciando la perdita dei diritti civili a chi avesse rifiutato e promettendo avanzamenti di carriera a chi avesse obbedito.
I soldati in esilio con il Duca disturbano. Non è che facciano paura. Si tratta di tremila uomini, concretamente non possono rappresentare un pericolo, però danno fastidio. Quella truppa che affronta l’esilio, la miseria, che rinuncia a tutto pur di rimanere fedele al sovrano spodestato è un pessimo esempio. È «un pruno negli occhi dei liberatori d’Italia» proprio perché e un controplebiscito, smonta la teoria dei popoli oppressi, confuta la tesi cavouriana del “grido di dolore”.
«Una truppa la quale segue il proprio Sovrano non il giorno del trionfo ma in quello della sventura, che rinunzia per lui alle allettative di patria e agli affetti di famiglia, che resiste alle seduzioni dell’usurpatore, che sopporta le ingiustizie dei partiti, che stretta intorno alle sue bandiere tiensi, senza esitare un istante, pronta a qualsiasi evento, non protesta essa forse con tutta l’energia di una fede antica, contro alla vituperevole cedevolezza dei tempi nuovi?» si chiede il De Volo. È esattamente questo che i rappresentanti dei «tempi nuovi» vogliono evitare.
L’Austria inizialmente intende aiutare il duca a riconquistare il trono estense, quindi si impegna con un Trattato a mantenere il suo esercito. Poi, tutto cambia, con inattesa rapidità. Le forze liberali hanno la maggioranza al Parlamento di Vienna, e sono ben decise a decretare lo scioglimento della scomoda Brigata: «L’Austria, ove, per la sconfitta di Solferino, il partito rivoluzionario era montato in auge, non poteva più a lungo offrire suolo ospitale ai campioni della fedeltà; e si trovò quindi il modo di costringere lo stesso imperatore a venir meno agli obblighi di quel Trattato», scrive il De Volo. Il destino della Brigata è ormai segnato.
La sentenza definitiva dell’Imperatore giunge il 14 agosto 1863 e impone lo scioglimento. È un’amara sorpresa per Francesco V e un inatteso trionfo per i suoi nemici. A Cartigliano Veneto, nel cortile di Villa Cappello, il 24 settembre 1863 le truppe sfilano per l’ultima volta. Ciascun soldato riceve una medaglia commemorativa con l’iscrizione Fidelitate et constantiae in adversis.
Un solo ufficiale e circa milleduecento soldati tornano a casa. Gli altri continuano a preferire l’esilio. Tornare a Modena significa vivere sotto il dominio dell’usurpatore, significa riconoscere un sovrano illegittimo, per un soldato anche giurargli fedeltà. E questi uomini che hanno fatto appunto della fedeltà il primo dei valori, non se la sentono. Hanno già prestato un giuramento. A Francesco V Duca di Modena. Ora non possono tornare a giurare, e proprio a colui che gli ha usurpato la corona.
Meglio entrare nell’esercito austriaco. Anche se la vita non sarà facile. Il governo sabaudo decreta per loro l’esilio definitivo, ribadisce la decadenza dei diritti civili e la confisca dei beni. In territorio austriaco vivranno con la sola paga da soldato, senza beni e senza la possibilità di ereditarli, senza famiglia e senza appoggi. Molti di loro conosceranno la miseria.
Dei soldati della Brigata che scelgono di restare in Austria, 782 prendono servizio attivo, 329 passano a pensione, prendendo dimora quasi tutti a Mantova o nel Veneto. Il generale Agostino Saccozzi è ammesso nell’armata austriaca col grado di tenente maresciallo. Tiene regolare corrispondenza con gli altri ufficiali, dalle lettere emergono appunto tutti i sacrifici che i soldati modenesi devono ancora sopportare. E il coraggio con il quale li affrontano, convinti, nonostante tutto, di aver fatto la scelta giusta. Convinti di aver offerto un esempio di gloria che non potrà che essere in futuro ammirato: «Io non mi pentirò mai di una condotta che onora me ed i miei compagni di fede e d’infortunio presso tutti i contemporanei che non hanno affatto perduto il buon senso e per cui molto più ci onoreranno i posteri nella storia».
FINE
PER APPROFONDIRE:
Elena Bianchini Braglia, L'ULTIMO DUCA. FRANCESCO V D'AUSTRIA ESTE, Edizione Terre e Identità
Pillola n.10 - Cristina Campo, la conversione e la «guerra contro l'orrore»
«Forse non esiste il banale nemmeno nel nostro tempo,
nemmeno in questo tempo in cui tutto è perduto.
Non almeno se avremo la grande forza di non coprirci gli occhi
per immaginarlo diverso»
Su cosa è fondata oggi la sua vita, intendo dire: che cosa legge?»: gli anni della formazione letteraria
«Da un po' di tempo mi accade qualcosa di tanto strano. L'altra sera ho preso in mano i Taccuini del Dr. Cechov, un libro che fino a due anni fa era la mia delizia, e dopo dieci minuti l'ho riposto. Una volgarità impalpabile, sottile, la volgarità del laico, dell'incredulo, evaporava da certe piccole osservazioni di quell'uomo senza bassezze, di quell'uomo per tanti versi adorabile. Così, per rallegrarmi senza la minima ombra di noia (la volgarità è veramente di una noia desertica), ripresi una grande biografia del Santo curato d'Ars. Si muore di paura a leggerla, ma di noia - oh di noia no, certo». Così Vittoria Guerrini - in arte Cristina Campo - scrive in una delle celebri Lettere a Mita. Siamo alla fine degli anni Sessanta, poco dopo la sua conversione. E queste parole ci danno l'idea di quanto questa conversione sia uno spartiacque nella sua vita. Cambiano le sue letture, non prova più interesse per gli scrittori che ha sempre amato. E parlando di Cristina Campo questo ha un grande significato, perché i libri sono sempre stati per lei il perno dell'esistenza stessa.
Ha sempre prediletto la solitudine, un po' per temperamento, un po' per necessità. Una malattia cardiaca congenita l'ha costretta fin da bambina a lunghi periodi di riposo, a rinunciare ai giochi all'aperto e perfino agli studi. Non frequenta la scuola, viene educata in casa, si istruisce da sé, attraverso «le basi semplici e solide delle mie letture», e l'ascolto della musica classica che «sa tutto e dice tutto». La lettura fin dalla fanciullezza è per lei dunque quasi l'essenza della vita. Di una vita interiore che è più reale della vita reale, i personaggi letterari e gli scrittori del passato sono i suoi più cari amici, quei «morti» che le fanno di continuo compagnia, perché - scrive in un'altra lettera a Mita - «i morti sono più vivi dei vivi». «Cosa sta leggendo?» è di solito la prima domanda che indirizza a chi incontra, o a chi le viene presentato. E già negli anni della conversione a Mita racconta che quella stessa «domanda» le viene sempre rivolta dal suo direttore spirituale Padre Agostino Mayer: «Su cosa è fondata oggi la sua vita, intendo dire: che cosa legge?». Si comprende dunque come un cambiamento delle letture sia l'indice più certo in lei di un cambiamento di vita e di cuore.
La gran parte della sua vastissima formazione letteraria avviene a Firenze, dove si trasferisce nel 1928, quando il padre, il musicista Guido Guerrini, è chiamato a dirigere il Conservatorio Cherubini. Lascia dunque la Bologna dove il 29 aprile 1923 è nata col nome di Vittoria Guerrini (che poi accantonerà per scrivere Sotto falso nome). La Bologna dove ha trascorso l'infanzia fra il verde del grande parco del Rizzoli (suo zio è un famoso ortopedico) e dove la madre Emilia Putti l'ha consacrata alla Madonna di San Luca, un fatto al quale attribuirà grande importanza, scorgendovi quasi la radice, la causa remota della sua futura conversione: «A questa icona mia madre mi affidò da bambina, ne porto al collo la medaglia» spiegherà in una lettera a Laura Roversi Monaco, sua preziosa sostenitrice e collaboratrice negli anni di Una Voce.
Pur conducendo una vita sempre molto ritirata, nella Firenze dei grandi poeti viene introdotta - anche grazie all'amicizia con Bul, il germanista e traduttore Leone Traverso - negli ambienti letterari: conosce Mario Luzi, Margherita Pieracci, Gianfranco Draghi e pubblica alcuni saggi su La Posta Letteraria del Corriere dell'Adda e del Ticino. Sono di questo periodo anche le prime traduzioni - Virginia Woolf, Emily Dickinson, Katherine Mansfield - e soprattutto la scoperta di Simone Weil e Hugo Von Hoffmansthal, che eserciteranno notevole influenza sul suo pensiero giovanile. Il lavoro di poetessa e traduttrice e i contatti col mondo letterario proseguono poi a Roma, dove si trasferisce nel 1955, sempre a seguito del padre, nominato direttore del Conservatorio di Santa Cecilia. Margherita Dalmati, Maria Zambrano, Ignazio Silone, Danilo Dolci, Corrado Alvaro sono alcune delle sue amicizie romane. Oltre naturalmente a Elémire Zolla, incontrato nel 1958 e presente al suo fianco, in un contrastato rapporto sentimentale, fino alla morte.
Nel 1962 esce la sua prima raccolta di saggi Fiaba e mistero. La perfezione vi appare rincorsa con quel linguaggio spirituale di splendida eleganza che tornerà, e sempre più, nelle raccolte successive, rendendo precisamente calzante la definizione - «tessitrice d'inesprimibile» - che di lei darà Guido Ceronetti nella nota introduttiva a Gli imperdonabili. Il suo stile personalissimo è e sarà sempre segnato dalla ricerca della perfezione, in particolare dalla volontà di far coincidere esattamente la parola con il suo significato, evitando con cura ogni tentazione di approssimazione. Per questo non scriverà molto: «Ho scritto poco e mi piacerebbe avere scritto ancor meno», ama ripetere.
Da Firenze a Roma la vita di Cristina Campo cambia poco, le sue abitudini rimangono le stesse e sono sempre quelle di una vita assai ritirata. Non ama circoli e premi letterari. Né loro amano lei. Non è considerata un'autrice alla moda, forse troppo reazionaria già prima della conversione, sicuramente troppo ricercata, ben poco popolare. Si rende forse “imperdonabile” nella perfezione, e comunque mai si lascia attrarre dalla ricerca del consenso. Anzi, è più facile vederla cedere a una fanciullesca voglia di «scandalizzare» chi le sta a fianco. Per interrompere conversazioni noiose - come narra di avere fatto una volta con Maria Luisa Spaziani. O semplicemente per provocare, come quando, nell'immediato dopoguerra, «a Firenze si divertiva a lodare ad alta voce Mussolini per scandalizzare i passanti». Nella scelta delle persone da frequentare è selettiva ma aperta, rifiuta griglie politiche o ideologiche, ad esempio, pur essendo certamente una donna “di destra” ha moltissimi amici “di sinistra”, perché «la vita è un'altra cosa, è serbare un sano senso delle proporzioni». Predilige le relazioni epistolari, e di questo dobbiamo esser grati. Le sue lettere, in particolare le Lettere a Mita, ci offrono la possibilità di conoscere il suo straordinario mondo interiore, di seguirne passo a passo la conversione e attingere al grande tesoro spirituale che ne scaturisce, e che forse non emerge con altrettanta spontaneità da saggi e poesie.
Né a Firenze né a Roma dunque Cristina frequenta salotti letterari, piuttosto, se costretta dalle circostanze, preferisce indirli lei stessa, in modo da poter scegliere con cura gli ospiti. È schiva e di rara eleganza, le poche volte che appare in società conquista suo malgrado la scena, la sua conversazione è irresistibilmente brillante. Traspare la sua vasta cultura senza che lei faccia nulla per metterla in mostra, in linea con quel concetto di sprezzatura che è indubbiamente uno dei suoi capolavori e che la fa scivolare leggera e diretta attraverso ogni cosa, piccola o grande che sia: «Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare». «Musica di una grazia interiore», la sprezzatura la invade interamente e lei si lascia invadere, perché «maestro supremo di sprezzatura è il Cristo, con le sue ineffabili soluzioni che capovolgono l'ordine del mondo».
E se da cattolici ci chiedessimo cosa della prima parte della vita di Cristina Campo - quella precedente la conversione - può essere spiritualmente utile, la sprezzatura è senz'altro la prima. Un atteggiamento di spontaneità e naturalezza capace di escludere ogni affettazione, esagerazione, o ipocrisia. E che a ben guardare molto assomiglia - e in certo senso prepara - alla sempre tanto raccomandata indifferenza ignaziana. Dei suoi scritti, delle sue idee e del suo pensiero giovanile non possiamo purtroppo salvare nulla o quasi: Cristina fino agli anni Sessanta è preda di una grande confusione. La confusione modernissima - potremmo dire quasi tipica della nostra epoca - di una spiritualità vaga e onnicomprensiva. Il suo punto di riferimento è Simone Weil con quella «attesa di Dio» che Cristina fa sua, in una ricerca, in un amore per il sacro che, se da un lato indubbiamente lascia aperto uno spiraglio a quel Dio che instancabile bussa alla porta di ogni cuore, dall'altro sembra perdersi in una via tortuosa e lastricata di errori. Eppure, nei disegni di un Dio che ci conduce a scrivere dritto anche su righe storte, questa spiritualità deformata si rivelerà utile punto di partenza per giungere poi alla conversione. E a quel punto i tratti salienti della sua personalità - l'amore per la bellezza e la ricerca continua della perfezione - si trasformeranno in preziosi alleati per il consolidamento nella vera fede. L'amore per la bellezza la indurrà infatti a opporsi - dapprima con ragioni appunto estetiche poi via via sempre più spirituali - alla mortificazione della liturgia operata dalla riforma conciliare. La ricerca della perfezione la porterà ad abbracciare la fede in modo totale, senza mezze misure, senza ombra alcuna di tiepidezza.
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Pillola n.11 - Cristina Campo, la conversione e la «guerra contro l'orrore»
«Forse non esiste il banale nemmeno nel nostro tempo,
nemmeno in questo tempo in cui tutto è perduto.
Non almeno se avremo la grande forza di non coprirci gli occhi
per immaginarlo diverso»
«Di queste cose Simone non capiva nulla»: dall'Attesa di Dio alla certezza della fede cattolica
È nella seconda metà degli anni Sessanta che Cristina Campo comincia a maturare quell'attrazione per la fede cattolica che esplode poi completamente dopo la perdita improvvisa di entrambi i genitori. E che, in linea appunto col suo temperamento, lontanissimo dalla mediocrità, sarà rapida e profonda. Gli ultimi anni della sua vita sono fortemente - anzi si potrebbe dire esclusivamente - connotati dal fervore religioso. La fede funge da vero e proprio spartiacque nel suo pensiero, nei suoi scritti e nelle sue letture. Abbandona i classici della letteratura che fino a quel momento hanno accompagnato ogni ora della sua vita, trova noiosi i romanzi e gli scrittori, cerca le vite dei santi, le opere di spiritualità e tutto quello che può aiutarla a capire ciò che sta avvenendo nella Chiesa con il Concilio Vaticano II.
«Faccio colazione alla mattina studiando i Canoni del Concilio di Trento (sublimi, di queste cose Simone non capiva nulla), a mezzogiorno sto ancora leggendo il Sacramentario Leoniano e la sera pranzo con il Concilio di Nicea, per addormentarmi sulla Pascendi o sulla Vita di Sant'Atanasio. Mescolati a questi libri sul mio letto ci sono, sì Proust, Pasternak e James, ma per loro non ho che brevi sguardi, come attraverso la griglia di un monastero. Il mio telefono squilla solo a chiamate di cardinali, vescovi, prelati, abati e preti - ma devo dire che sono la gente meno noiosa del mondo - quando parlavo con gli scrittori, che deserto!», scrive in una lettera a Mita il 27 novembre 1967. Nello specificare fra parentesi «di queste cose Simone non capiva nulla», Cristina Campo si riferisce chiaramente a Simone Weil, alla quale in gioventù è stata molto vicina e dalla quale ora evidentemente prende le distanze. La sua “attesa di Dio” ha ora trovato risposta. Una risposta chiara e appagante nella Chiesa Cattolica. Quella di Simone Weil no, è rimasta semplicemente “attesa”, incompiuta, sterile attesa. Non può dunque esserci più alcuna affinità spirituale fra loro, Simone Weil non può più essere un punto di riferimento. Margherita Pieracci sarà imbarazzata per l'atteggiamento di Cristina verso Simone Weil e in particolare per la «dura prefazione» che scriverà all'edizione del 1972 de L'attesa di Dio e che lascerà sconcertati gli amici di entrambe, soprattutto la stessa Mita e Pietro Citati. Non riescono a spiegarsi, e non apprezzano, questo cambiamento. Lei del resto non si aspetta di essere capita, anzi è certa di non esserlo: «due mondi/io vengo dall'altro».
Cristina Campo era sola prima: la prosa raffinata, la riservatezza, la meticolosa ricerca della perfezione non sono mai state adatte a suscitare il plauso della cultura popolare e chiassosa dell'Italia del dopoguerra. Ancora di più sarà sola dopo la conversione, etichettata come “reazionaria”, incompresa perfino dagli amici più cari, accusata di fanatismo ed esagerazione. Ma è questo un inconveniente abbastanza comune, dal quale già Francesco di Sales si premura di mettere in guardia la sua Filotea. Nel caso di Cristina Campo funge da aggravante il tempo particolare in cui si trova a vivere, quello del Concilio. Contro il quale intraprende una guerra senza umana speranza e tuttavia capace di coinvolgerla totalmente, allontanandola da tutto il resto e soprattutto da Elemire Zolla, il quale, pur capendo a tratti le sue ragioni e pur cercando talvolta di aiutarla, non è in grado di reggere il suo passo e soprattutto non arriva a trasformare una semplice protesta di natura estetica in un radicale cambiamento di cuore. E questo aprirà fra loro una crisi irreparabile: «Personalmente io sono in pace nell'intimo, sebbene “la guerra” abbia creato una profonda, profondissima ferita anche tra El. e me. Egli non vuole più saperne delle cose che per me sono la vita: ciò che accade all'esterno lo allontana sempre più da esse e lei può immaginare cosa sia la disparità di culto tra due persone unite solo dallo spirito. Per molto tempo ho lottato, ma mi stavo ammalando. Ora ho rimesso tutto in altre Mani. Ciò non toglie che anche questo consumi. Le grandi consolazioni sono ancora e sempre l'Aventino e le cerimonie del Russicum, più belle che mai (fino a quando?)». Dunque appare chiara la differenza fra le ragioni che muovono Cristina e quelle che muovono Zolla, e di conseguenza la differenza di approdo. Lui combatte per ragioni culturali contro il sacrificio della liturgia, in linea con quella visione gnostica che riconosce dignità alle tradizioni religiose, tutte, mettendole sullo stesso piano. È chiaro che in quest'ottica la battaglia merita di essere combattuta solo fino a quando c'è speranza di vittoria. E infatti, vedendo che la messa tradizionale va via via scomparendo, Zolla si allontana ulteriormente dalla Chiesa Cattolica, la ritiene morta, superata. Cristina invece si rinforza, è spinta da ragioni sovrannaturali, si rende conto che «la guerra» non ha speranza terrena, ma combatte per la gloria di Dio. E a Dio - si sa - non importa l'esito - che resta sempre nelle sue mani - bensì l'impegno profuso da noi, "servi inutili". A noi la battaglia a Dio la vittoria, è il celebre motto di Giovanna d'Arco. Cristina Campo combatte con questo spirito fino alla morte, allontanandosi da Elemire Zolla che, appunto non sostenuto da motivazioni sovrannaturali, non riesce a tenerle il passo. La «profondissima ferita» che si apre fra loro è l'ultimo capitolo di un rapporto che in realtà è sempre stato complicato e doloroso. Ultimo capitolo che tuttavia non si concretizza in una separazione di fatto. Cristina, anche a causa della malattia, ha paura di restare completamente sola, di morire sola, senza i conforti religiosi: Elemire resta dunque al suo fianco, come un fratello, e quando nella notte del 10 gennaio 1977, le sue condizioni rapidamente si aggravano, ha la prontezza di chiamare Padre Mayer.
I suoi ultimi anni Cristina li trascorre sull'Aventino, per essere vicina all'Abbazia benedettina di Sant'Anselmo, dove segue la messa in latino accompagnata dai canti gregoriani: «Non so dirle la bellezza, qui, di tutte le ore, la dolcezza delle campane, dell'orologio di Sant'Anselmo che suona ogni quarto d'ora. E quanto sia importante essere chiamati all'Angelus tre volte al giorno» scrive a Mita nel settembre del 1965: «Quassù, certo, è meno orrendo che a casa. Ci sono le campane dell'Abbazia, e c'è la Trappa, alle Tre Fontane, dove talvolta vado. Non so altro di me, di noi, del futuro. Non so nulla del presente, se non che non c'è limite a questa lotta con l'orrore». Chiama sempre «l'orrore» il novus ordo e ciò che gli sta intorno dopo il Concilio, «nuovo e sinistro Calvario a cui siamo chiamati: non dai nemici ma dagli amici impazziti».
All'Aventino «persino questo tempo di orrori e di crolli spirituali è reso sopportabile dalle radici in terra e dalle campane in cielo». «Ma fino a quando?» si chiede. E un giorno è costretta a scrivere che «anche qui è arrivata la lebbra».
Sono anni che lei dedica unicamente «a salvare il rito romano, a ricostruirlo nelle catacombe»: «La lotta con l'orrore impegna tanto delle mie forze, tanto del mio abbandono», e rispetto a questa «tutto deve aspettare, perfino la poesia». A Roma avverte tutto il peso del disastro che sta accadendo: «Pesa d'altronde su questa città una spaventevole energia negativa. Se non camminassimo su sangue di martiri, saremmo forse tutti già periti», scrive a Mita il 2 ottobre 1973. Si rende conto che vivere in una città santa in tempo di apostasia e assai più doloroso che vivere in una città profana, e ancora a Mita confida che un breve viaggio a Firenze «mi ha reso quasi intollerabile il ritorno a Roma, alla lotta ormai tragica contro l'apostasia religiosa». A Firenze si è sentita «come un soldato in licenza durante una guerra tremenda e senza speranza terrena».
Nelle sue ultime opere emerge a forza l'afflato religioso e soprattutto l'amore per la liturgia: «La liturgia mi viene sotto la penna, qualunque cosa io scriva», perché lì, dice, si trova la nostra storia gettata meravigliosamente in grembo a Dio. Con Hofmannsthal è certa che «la cerimonia è l'opera spirituale del corpo», dunque bellezza e liturgia sono inseparabili.
Definita spesso un'esteta, in realtà rigetta la parola “estetismo”, «vecchia e trista fattura», rimarcando semplicemente il ruolo della Bellezza, «la quale è teologica; sì, è una virtù teologale, la quarta, la segreta, quella che fluisce dall'una all'altra delle tre palesi. Ciò è evidente nel rito, appunto, dove Fede, Speranza e Carità sono ininterrottamente intessute e significate dalla Bellezza», scrive ne Il linguaggio dei simboli, pubblicato in Sotto falso nome.
E in Note sopra la Liturgia si appoggia a due generosi eccessi, l'olio di Nardo abbondantemente sparso dalla Maddalena e i preziosi doni dei Magi, perché «liturgia - come poesia - è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell'utile». Spiega che «la complessità del gesto di Maddalena ne fa qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale». Mentre i «saggissimi Magi», pur «partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia». Liturgia che «rimane per eccellenza un'operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione».
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Pillola n.12 - Cristina Campo, la conversione e la «guerra contro l'orrore»
«Forse non esiste il banale nemmeno nel nostro tempo,
nemmeno in questo tempo in cui tutto è perduto.
Non almeno se avremo la grande forza di non coprirci gli occhi
per immaginarlo diverso»
« L'uomo più santo che abbia mai incontrato»: l'appoggio a Monsignor Lefèbvre e la fondazione di Una Voce
Nel 1974 cura un testo, pubblicato da Rusconi, di Marcel Lefèbvre, Un Vescovo parla. Alfredo Cattabiani, direttore editoriale di Rusconi, azzarda: «Era un'estremista, direi quasi che fu Lefèbvre a essere un discepolo di Cristina». Certamente quella di Cattabiani è palese esagerazione, ci riesce difficile pensare che Lefèbvre non sapesse benissimo quel che doveva fare anche senza attendere i consigli della Campo, tuttavia sarà lo stesso monsignore a confermare il prezioso ruolo di Cristina nella lotta per la tradizione, in un biglietto a Ida Samuel, segretaria della sezione bolognese di Una Voce: «Ecône, 5 agosto 1986. Cara signora, per la grazia di Dio speriamo di aprire il nuovo grande seminario, per moltiplicare i veri sacerdoti cattolici. La ringrazio del suo amabile pensiero per i nostri giovani seminaristi. Cristina Campo! Che ricordo durante quel miserevole Concilio. Quale incoraggiamento abbiamo ricevuto da lei per condurre la buona battaglia, meglio di noi ella vedeva l'invasione dei nemico della Chiesa e della vera Roma. Ha avuto ragione e ha ancora ragione. I nemici sono ovunque nella Chiesa e specialmente a Roma».
Con Monsignor Lefèbvre Cristina è in costante rapporto, in una lettera a Mita lo definisce «l'uomo più santo che abbia mai incontrato», «la figura della certezza». A Laura Roversi Monaco raccomanda sempre di sostenere Lefèbvre e il suo seminario. Inviandole il Bollettino della Lettera agli Amici e Benefattori di Econe scrive: «Glielo raccomando - e so del resto che non è necessario - lei sa tutto di Monsignor Lefèbvre e della sua miracolosa esistenza. So che farà per lui tutto ciò che potrà e che ne parlerà ad altri: è la cosa più urgente che esista - questo salvataggio solitario del sacerdozio di domani... Io vedrò l'arcivescovo fra quattro giorni, poi le darò notizie». E conclude: «Grazie se potrà fare qualcosa, anche di minimo. Ovvio dire che aiutare quest'uomo meraviglioso significa ricavarne il 100 per 1 - l'ho constatato già più volte di persona - e non solo in senso spirituale». Nella stessa lettera parla anche di un altro bollettino, Pro Fratibus, «ma è ovvio che monsignor Lefèbvre ha tutte le precedenze».
E a monsignor Lefèbvre annuncia poi di avere «messo in vendita un piccolo appartamento che possiedo a Firenze. Se la vendita si farà, sarò in grado di inviare un'offerta un po' meno irrisoria ai nostri cari seminari». Poi, non manca di aggiungere, all'offerta materiale, quella spirituale: «Prego Vostra Eccellenza di credere che in questo periodo non è passato giorno senza che io offrissi al Signore, per Econe e il suo fondatore, le mie piccole e meno piccole miserie, e anche la gioia, perché io credo che bisogna offrire a Dio, per la sua più grande Gloria e per la felicità di coloro che amiamo, tutto ciò che Lui ci dona».
In vari paesi nascono in quel periodo associazioni chiamate Una Voce, il cui scopo è salvare la liturgia tradizionale, latina e gregoriana.
«Esse sono nate - spiega Cristina Campo - non perché sia stata imposta una liturgia volgare, ma perché è stata tolta, nei luoghi dove era capita e amata, quella tradizionale. Perché tanta instancabile insistenza? Perché, se le Costituzioni conciliari non lo esigono, anzi, espressamente prescrivono il mantenimento delle tradizioni?». La prima associazione viene fondata a Parigi, con sede in rue de Grenelle 109. In Francia, per le edizioni Spes, esce anche un'opera di Bernadette Lécureux, Le latin langue d'Église, che raccoglie varie citazioni di Pontefici: «Il latino, per diritto e merito acquisiti, dev'essere chiamato ed è la lingua propria della Chiesa» (Pio X, Vehementer sane, 1 luglio 1908); «Sarebbe superfluo rammentare ancora una volta che la Chiesa ha dei gravi motivi di mantenere fermamente nel rito latino l'obbligo incondizionato per il celebrante di usare la lingua latina» (Pio XII, allocuzione del 22 settembre 1956); «Abbiamo deciso di prendere le misure opportune affinché l'uso antico e ininterrotto del latino sia mantenuto pienamente e ristabilito dove sia caduto in desuetudine» (Giovanni XXIII, Costituzione Veterum sapientia, 22 febbraio 1962). Seguono fondazioni in Inghilterra, Germania, Austria, Belgio, Scozia, Svezia. Norvegia, Olanda e la costituzione di una Federazione internazionale con sede centrale in Svizzera. In Italia il movimento nasce tra gli amici di «un Maestro italiano da poco scomparso», Guido Guerrini, «appassionatamente devoto al gregoriano». La fondatrice è ovviamente Cristina Campo. Alcuni giorni prima, il 5 giugno 1966, ha inviato a papa Paolo VI una lettera-manifesto firmata da 38 intellettuali di ogni paese (Wynstan Hugh Auden, José Bergamin, Robert Bresson, Benjamin Britten, Jorge Luis Borges, Cristina Campo, Pablo Casals, Elena Croce, Fedele D'Amico, Luigi Dallapiccola, Giorgio De Chirico, Tamaro De Marinis, Augusto Del Noce, Salvador De Madariaga, Carl Theodor Dreyer, Francesco Gabrieli, Julien Green, Jorge Guillén, Hélène Kazantzakis, Lanza del Vasto, Gertrud von Le Fort, Gabriel Marcel, Jacques Maritain, François Mauriac, Eugenio Montale, Victoria Ocampo, Nino Perrotta, Goffredo Petrassi, Ildebrando Pizetti, Salvatore Quasimodo, Elsa Respighi, Augusto Roncaglia, Wally Toscanini, Philip Toynbee, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla.). Di questa lettera, che esprime il desiderio di veder preservata la liturgia latino-gregoriana in tutta la sua purezza almeno nelle chiese conventuali, si occuperà - dato anche lo spessore dei firmatari - la stampa del mondo intero. E appunto in seguito alla vasta eco avuta tra i fedeli e alle loro sollecitazioni (Cristina Campo si accorge che la gente è perplessa, spaventata dai cambiamenti liturgici e dottrinali: A Mita scrive di numerose lettere che arrivano alla redazione di Conoscenza religiosa: «lettere di assetati»), si decide di creare anche in Italia una sezione di Una Voce. Come presidente viene nominato il Duca Filippo Caffarelli, Vicepresidente Eugenio Montale.
Nell'Editoriale (pubblicato senza firma, ma da vari indizi riconducibile con certezza alla penna di Cristina Campo) del primo bollettino si trova la ragione del nome scelto per l'associazione, che altro poi non è che il significato, lo scopo dell'associazione stessa: «Essa ha nome Una Voce, espressione latina tratta dal Praefatio della Messa e che significa appunto «ad una voce, con una sola voce»: quella diffusa su tutta la terra, da una lingua e una musica universali».
«Dice il Vangelo: «Se il figlio chiede a suo padre del pane, forse che questi gli porgerà delle pietre?». Ora, spiega Cristina Campo, «il detto evangelico sembra ricevere un'aperta smentita da coloro che, partendo da principi erronei - tra cui l'inaudita intolleranza verso la lingua della Chiesa - al pane sostanzioso di una grande tradizione liturgico-musicale non si accorgono di sostituire il pietrame di moderne invenzioni che con quella tradizione nulla hanno di comune. Come difficilmente ciò possa definirsi apostolato o invocare a propria giustificazione l'ansia pastorale, intenderà chi non abbia perso di vista l'intimo rapporto che regna tra qualità artistica ed efficacia spirituale. Secondo la parola di San Pio X, soltanto si può pregare sul bello».
Continua poi mostrando come la Costituzione conciliare abbia ribadito «che l'uso del latino è la norma» e che non ha senso abolirlo: «È vero che il latino non è la lingua dei Vangeli né delle allocuzioni del Cristo, ma, come fa notare la Lécureux, forse che il fatto che i testi preziosi hanno già subito molte traduzioni prima di fissarsi nel latino è un buon motivo per farne altre alla leggera? Se aveste in casa degli oggetti fragili e preziosi, rimasti indenni dopo trasporti e traslochi, forse che li maneggereste senza precauzione? Il latino non è l'unica e sola lingua canonica ma è quella che la storia ci ha affidata ne varietur». Ed è quella che va mantenuta «come cemento d'unità e, per citare la Mediator Dei di Pio XII, come "protezione efficace contro ogni corruzione della dottrina originaria". Nelle versioni correnti le adulterazioni dottrinarie ammannite ai poveri fedeli dalle traduzioni infedeli non si contano. La concisione, la immediatezza del latino non sono riproducibili».
E conclude paragonando l'atteggiamento di «chi procede a una abolizione di celebri cori e quindi a un'opera di smantellamento di istituzioni liturgico-musicali che forse non si potranno ricostituire mai» a quello totalmente assurdo di chi volesse «alterare le cattedrali, da Chartres a Compostella, per “rammodernarle” - anzi come se addirittura si demolissero - con la scusa che i fedeli per lo più non sono in grado di valutare il significato delle statue ed i pregi architettonici. Forse che il fedele comune “capisce” i quadri celebri?».
In quei mesi di attività frenetica Cristina Campo dalle pagine di Una Voce lancia continui appelli, anche di natura pratica, ai cattolici, esortandoli alla resistenza attiva. Invita ad acquistare breviari, messali, libri di preghiere in latino, oggetti liturgici magari esposti a basso prezzo nei mercatini. A utilizzare tutto ciò che serve per mantenere integra la fede, a qualsiasi costo: «Fate qualunque sacrificio, di tempo, di energia, di svago, pur di assistere alla tradizionale Messa in lingua latina, la sola che sia ormai dottrinalmente sicura. Rileggete, mandate a memoria, insegnate voi stessi ai vostri figli il vero catechismo, quello di San Pio X. Leggete le vite dei santi, ubriacatevene, rimpinzatevene. Riunitevi, non rimanete isolati. Superate quella terribile "stanchezza dei buoni" sulle cui schiene fabbricano gli inqui, come ci ricorda il Salmo».
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Pillola n.13 - Cristina Campo, la conversione e la «guerra contro l'orrore»
«Forse non esiste il banale nemmeno nel nostro tempo,
nemmeno in questo tempo in cui tutto è perduto.
Non almeno se avremo la grande forza di non coprirci gli occhi
per immaginarlo diverso»
«Devota come un ramo/curvato da molte nevi»: accettare il dolore per crescere nella fede
Inevitabilmente diminuisce ulteriormente in questo periodo la sua produzione letteraria: tutto - come lei stessa ammette - viene sacrificato alla «guerra contro l'orrore». Nondimeno la sua opera ha un forte contenuto religioso e liturgico. In alcuni saggi affronta direttamente il problema della liturgia, in molti versi rivela una spiritualità sempre più profonda e definita. Nelle lettere personali si coglie ogni tratto della sua conversione e del suo progresso spirituale, che sembra giungere fino ai vertici delle purgazioni mistiche descritte dai grandi santi, Giovanni della Croce e Teresa d'Avila, come si può intravvedere appena da certe sue parole discretissime, dette e non dette, fra le righe, con umiltà e sprezzatura perfette. Parla ad esempio di una «discesa agli inferi» durante la quale «non mi ha mai abbandonata la certezza di trovarmi - e non sola - al centro di un mistero, e di un mistero di grazia», accenna a «una condizione di cecità totale - avanzare nelle fitte tenebre - compatibilissima, anzi strettamente legata, a quelle che lei chiama “certezze”».
Si definiscono con estrema chiarezza e si stabiliscono come tratti irrinunciabili della sua vita quotidiana la fede nella comunione dei santi - «credo alla sua virtù trasformante, al cospetto di questo Re sublime anche il più misero dono diventa grande e prezioso» - e nell'angelo custode - «...potesse rivolgere la parola al suo Angelo almeno una volta al giorno! Ma proprio “come si parla ad un uomo”, come diceva il curato d'Ars. Se no, proverò a parlargli io per lei» - la lettura del breviario e la consapevolezza del potere della preghiera - «è certo che se l'uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l'assicuri come un canapo a Dio, perfino un mondo quel è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo». E soprattutto una sempre più totale conformità alla volontà di Dio, al quale arriva ad offrire tutto, perfino il sacrificio della liturgia: «questa credo sia un'offerta che vale».
In generale, nella sua opera, dove estetica ed etica coincidono e si legano indissolubilmente, l'io personale, privato, si nasconde. “Io” è per Cristina Campo una parola da usare il meno possibile. E se da sempre cerca la paradossale negazione del suo essere materiale per divinizzarsi, ora vede che ciò resta impossibile: diminuisce fino al silenzio, un silenzio cercato, desiderato ma proibito dalle stesse condizioni di esistenza. Il dolore esperito nel tempo presente la tiene legata al presente stesso, quasi come un apparentemente insuperabile impedimento alla trascendenza, dunque la soluzione non è più quell'annientamento ascetico di ogni corporeità, tipico dei filosofi o di certe religioni orientali, al quale ha guardato con interesse in gioventù. Ora si tratta piuttosto di un abbandono, di uno stato di continua supplica in un dolore pienamente accettato, senza cercare altro sollievo che non sia quello offerto da Dio.
«Non so che una parola: abbandono. Il sentimento di non riuscire a tenere le cose in mano è veramente un sentimento terribile; ma forse può divenirlo meno se ricordiamo che le cose sono sempre in altre mani, che i piani si fanno sempre altrove. "Io non so la via, ma Tu la sai” è il solo ragionamento possibile quando si cammina al buio», scrive a Mita e nella stessa lettera fa l'incantevole esempio dei gattini: «Da un mese sono nati alla mia gatta Paki-paki quattro gattini; e io vorrei imparare da loro il meraviglioso abbandono col quale piccoli, inermi, incapaci di tutto, si lasciano prendere da me, sollevare in luoghi altissimi (la mia spalla), trasportare in terribili deserti (la cucina o la terrazza), manipolare in cento modi È il segreto della loro forza e anche della mia tenerezza - come non trattarli con immenso riguardo? Forse a noi tutti è chiesta questa cieca, questa temeraria fiducia». E termina: «Le dico queste cose perché ne ho bisogno anch'io le parlai, un anno fa circa, di prove angosciose. Non sono finite, al contrario. E a volte - come in questo momento - io muoio letteralmente di paura, come il gattino sollevato improvvisamente su un'altissima spalla. Che fare? Nulla. Chi mi solleva così sa quel che fa. Lasciarlo dunque fare È immensamente difficile ma è l'unica cosa che abbia un senso».
È curioso notare che Suor Consolata Betrone, la Clarissa di Moncalieri che traccia la via spirituale delle Piccolissime, riporta nei suoi scritti un esempio simile. Protagonisti, anziché i gattini, sono i pulcini dell'orto del monastero, che un giorno la circondano, «prendendo d'assalto il mio grembo», in cerca di cibo: «Pensavo al padre San Francesco e li lasciai fare indisturbati» finché «uno di essi, essendomi rimasto in grembo, tentai di accarezzarlo, ma s'impaurì e il suo cuoricino prese a battere forte forte. Volli calmarlo, perciò lo strinsi a me, finché fu tranquillo». E dopo, rientrata in coro, un pensiero la illumina: «Che merito aveva quel pulcino, che io giungessi a stringermelo al cuore, ad accarezzarlo? Nessuno». Solo il suo essere spaurito e indifeso l'aveva mossa a compassione. Dunque verso l'anima indifesa che semplicemente, senza alcuna presunzione di sé, si abbandona a Lui, certamente Gesù avrà «la stessa compassione».
Sono pensieri apparentemente semplici, e che tuttavia affrontano temi insondabili e spesso insolubili. La spiegazione del male, l'accettazione del dolore, il senso di una piccola creatura di fronte all'infinito hanno spiazzato molti filosofi e sono stati colti da anime semplici, in un barlume di grazia. Consolata Betrone è sicuramente un'anima semplice, “piccolissima” per ammissione e per scelta. Cristina Campo certamente no, la sua mente è ricca, il suo pensiero complesso, tanto da condurla spesso per vie tortuose. Ma toccata dalla grazia, si fa simile alla suora, all'anima semplice. Perché l'anima che accetta Dio, diventa semplice per forza, e solo così riesce a cogliere ciò che è difficile, a scardinare misteri insondabili.
Cristina non ha d'altra parte mai ignorato il valore della sofferenza, ha sperimentato il potere del dolore nel rinsaldare l'anima, per farla «Devota come un ramo/curvato da molte nevi/allegra come falò/per colline d'oblio». Lo ha provato in prima persona, nella malattia, che «è sempre e unicamente qualcosa che Dio ha da dirci; cercarvi altre cause è buttar via la perla preziosa». Ha dunque imparato ad abbracciare il dolore, in ogni sua forma. Accetta con serena rassegnazione anche quello immenso, quasi paradossale, di perdere la Messa che ha appena scoperto. Suona quasi come una beffa, questo suo amore per la liturgia tridentina, ignorato per tutta la vita e scoperto troppo tardi per poterne godere. Eppure non si scoraggia, procede con serenità, perfettamente abbandonata ai disegni di Dio: «Curioso - e abbastanza enorme, vero? - aver capito tutte queste cose solo dopo tanti anni e non provare alcuna disperazione all'idea dell'immenso tempo perduto ma solo una traboccante gioia e gratitudine, come Elisabetta quando, già vecchia, comprende di dover partorire», scrive a Mita, alla quale poi ancora spiega il valore di questa sofferenza connaturata alla sua lotta: «E tutto ciò, tutte queste cose irrimediabilmente perdute se Dio non interviene, noi le viviamo con l'intensità inesprimibile di chi si è innamorato di una creatura segnata. E forse anche questo, essendo una passione, è parte della Grazia».
Non disprezza, nonostante tutto, il suo tempo: «Questo tempo, se non lo manchiamo, può essere di benedizione».
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Pillola n.13 - Cristina Campo, la conversione e la «guerra contro l'orrore»
«Forse non esiste il banale nemmeno nel nostro tempo,
nemmeno in questo tempo in cui tutto è perduto.
Non almeno se avremo la grande forza di non coprirci gli occhi
per immaginarlo diverso»
«Oltre caos e ragione»: la morte di Cristina Campo
Nel 1967 sulla riforma liturgica viene pubblicato un libello, La tunica stracciata. L'autore, Tito Casini, immagina di scrivere una serie di lettere al cardinale Giacomo Lercaro, che non esita a paragonare addirittura a Lutero. Prima della pubblicazione vuole confrontarsi con Cristina Campo, va a farle visita a Roma accompagnato dalla moglie, che poi in un'intervista la ricorderà così: «Era tutta anima. Una grande anima in un corpo molto esile».
Questo corpo molto esile, già minato dalla malattia, non è forse in grado di reggere l'intensità della «guerra contro l'orrore». Le lunghe notti insonni, passate a studiare, a documentarsi, le giornate trascorse a prendere contatti, a telefonare, a scrivere documenti hanno forse appesantito troppo il suo cuore malato. Hanno forse anticipato la sua morte. Monsignor Guerard Des Lauriers, riferendosi in particolare al Breve Esame Critico del Novus Ordus Missae, presentato a Paolo VI dai cardinali Ottaviani e Bacci, ammette che Cristina Campo «ne concepì il progetto, ne portò il peso e ne morì d'agonia».
Un duro colpo è certamente per lei la soppressione della Messa anche nell'abbazia di Sant'Anselmo. Dopo averne invano cercate altrove, si risolve a frequentare il Russicum, istituto pontificio dove viene celebrato il rito bizantino. La liturgia orientale conserva ancora i suoi riti tradizionali, sembra preservasi immune dalle umiliazioni a cui viene sottoposto il rito romano e lei vi trova pascolo per la sua anima. Non si converte alla fede ortodossa, semplicemente segue il rito bizantino, in linea col suo amore per la bellezza e per la perfezione liturgica. Ha sempre amato certi aspetti della religiosità russa, ha sempre amato Dostoevskij, soprattutto il Dostoevskij dell'Idiota, che definisce «una presenza silenziosa e continua» nella sua vita, perché «chiamava le cose con il loro nome, è forse il solo che l'abbia fatto tra i moderni». E ricorda quando, poco più che bambina, un giorno ha chiesto al padre di poter leggere i libri della sua biblioteca e lui «con un gesto, l'escluse quasi tutta: di tutto questo, nulla, mi disse, poi, indicandomi una scansia separata: Questi sì, puoi leggerli tutti, sono i russi. Troverai molto da soffrire ma nulla che possa farti male». E qui forse, in lei che già da bambina non aveva troppa paura di soffrire, è cominciato il suo amore per la letteratura russa e per Dostoevskij. L'ansia del sacro, la consapevolezza del ruolo del dolore, del dolore conosciuto, accettato e abbracciato, la capacità di guardare il male faccia a faccia e di vincerlo con il bene, il rapporto vivo con quel Dio che aspetta al varco e spiana anche la via più tortuosa accomuna certamente Dostoevskji a Cristina Campo che a tratti come lui si fa quasi filosofa e teologa.
Dunque si può ben comprendere come lei possa essersi avvicinata alla spiritualità russa, come emerge nei versi di Diario Bizantino, «oltre caos e ragione», senza rinnegare la fede cattolica che ha con tanta passione riscoperto e difeso fino alla morte. E che sarà quella che alla morte appunto la accompagnerà. Perché nella notte del 10 gennaio 1977 al suo fianco ci sarà Padre Mayer, il suo direttore spirituale dall'inizio della sua conversione. Cristina Campo muore dunque a cinquantatré anni con tutti i conforti e i sacramenti di quella Chiesa martoriata e ammalata che lei ha cominciato ad amare proprio nel momento della malattia. E non l'ha abbandonata mai, lottando disperatamente per salvarla, sacrificandole tutto senza nulla aspettarsi in cambio. A ben guardare, non può esserci amore più grande, e più meritorio, di questo.
Cristina Campo muore come è vissuta, nel silenzio. Poco conosciuta in vita, presto dimenticata dopo la morte. Su Conoscenza religiosa, la rivista fondata da Elémire Zolla nel 1968, con la quale lei aveva collaborato dal 1969, appaiono una dedica alla sua memoria e il poemetto inedito Diario Bizantino. Fino a quel momento è stata pubblicata la sola raccolta poetica Passo d'addio. Trentacinque anni dopo uscirà La tigre assenza, che riunisce Passo d'addio, Diario Bizantino e altre poesie sparse. Tutte le opere di Cristina Campo sono state poi curate da Margherita Pieracci Harwell, e pubblicate da Adelphi, cui si deve, a partire dagli anni Ottanta, una sua parziale riscoperta. Parziale, perché ancora non le si è reso veramente merito, ancora non sembra del tutto superata quella diffidenza che l'ha circondata in vita, e della quale lei stessa si è resa perfettamente conto, senza peraltro affliggersene: «So bene che ho contro tutto il costume italiano in blocco». Alfredo Cattabiani ammette che «è stata forse la più grande prosatrice italiana di questo mezzo secolo», eppure «del suo libro vendemmo poche copie, e non ottenemmo nessuna recensione perché l'autrice era considerata reazionaria». Per ragioni dunque forse ideologiche ci si è privati di un grande tesoro, che ci auguriamo sia presto valorizzato a beneficio di tutti, come recita il necrologio apparso sul Corriere della Sera a firma Roberto Calasso: «Cristina Campo ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori - e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante».